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Santi del 4 Marzo

Il mio Santo > I Santi di Marzo

*Sant'Appiano di Comacchio - Monaco (4 marzo)

Martirologio Romano: A Comacchio in Romagna, Sant’Appiano, monaco, che, inviato dal monastero di Pavia, condusse in questa cittadina vita eremitica.
Nacque probabilmente in Liguria e fu monaco a Pavia nel monastero di San Pietro in Ciel d'Oro.
Il suo abate lo inviò a Comacchio per controllare il rifornimento di sale per il monastero. Appiano non si limitò, però, a rappresentare gli interessi temporali del monastero, ma si dedicò anche con grande zelo alla cura delle anime degli abitanti della zona.
Quando egli morì (presumibilmente nel secolo IX) fu sepolto nella chiesa di Comacchio, dove in seguito fu venerato.
Se ne fa memoria nell'Ordine benedettino e nel monastero di San Pietro in Ciel d'Oro il 6 novembre, a Comacchio, invece, il 4 marzo.
I canonici di Ciel d'Oro festeggiavano in quest'ultimo giorno il leggendario vescovo di Pavia, di cui ricorreva la festa nella stessa città anche il 29 ottobre (cf. Acta SS. Octobris, XII, pp. 815 sg.), fino a che nella riforma del Breviario il suo nome fu cancellato.
A Comacchio non si possiede più alcuna reliquia di Appiano; a Pavia, invece, si credette di possedere il corpo del preteso vescovo omonimo.
I Bollandisti pensano, al contrario, che si tratti del corpo del nostro Appiano, che sarebbe stato trasportato a Pavia forse al tempo di una guerra (di un tentativo di furto da parte dei pavesi narra anche la leggenda).

(Autore: Alfonso M. Zimmermann – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Appiano di Comacchio, pregate per noi.

*San Basino di Treviri - Vescovo (4 marzo)

Martirologio Romano: A Treviri nella Renania in Austrasia, oggi Germania, san Basíno, vescovo, che, nato dai duchi del regno di Austrasia, divenne dapprima monaco, poi abate di San Massimino di Treviri e, elevato infine alla sede episcopale della città, consentì la fondazione del monastero di Santa Irmina ad Echternach in Lussemburgo.
Figura al trentesimo posto nei cataloghi episcopali della diocesi di Treviri. Poiché il suo nome appare insieme con quello del successore, San Liutvino (m. 713 ca.), in alcuni documenti in favore del monastero di Echternach e datati al 698, al 699 e al 704, se ne deduce, con ogni probabilità, che Basino negli ultimi anni del suo episcopato avesse assunto come coadiutore il suo futuro successore.
Tiofrido di Echternach (sec. XI), nella sua Vita di Liutvino, lo considera nipote di Basino, e ciò
non è improbabile. È certo poi che Liutvino era padre del suo successore Milone. Si può, quindi, affermare col Duchesne che una dinastia si trovava allora installata nella sede vescovile di Treviri.
Secondo la tradizione risalente all'XI sec., ma della quale si può dubitare, Basino prima di essere elevato alla sede episcopale sarebbe stato monaco e poi abate del monastero di San Massimino a Treviri. Il calendario di Villibrordo ricorda la morte di Basino al 3 marzo, senza però precisare l'anno. Probabilmente la sua morte va collocata verso il 705.
La Vita di Basino, per lungo tempo erroneamente attribuita a Nizzone, abate di Mettlach nell'XI sec., è molto tardiva, essendo stata composta a Treviri da J. Scheckmann, tra il 1515 e il 1525, mentre era abate del monastero di San Massimino Vincenzo de Cochen. In essa Basino è detto originario di una nobile e potente famiglia dell'Austrasia.
Entrato a San Massimino, fu tanto apprezzato per la sua virtù che ne venne eletto abate. Curò l'educazione del nipote Liutvino, che poi, sposatosi, ebbe il figlio Milone.
Eletto vescovo di Treviri, Basino continuò a vivere in grande austerità e istituì una comunità di ecclesiastici nel suo palazzo episcopale.
Si distinse in opere di beneficenza e nella costruzione di nuove chiese; contribuì col nipote Liutvino alla fondazione del monastero di Mettlach, nel quale, in seguito, questi si ritirò prima di essere assunto a coadiutore nel governo della diocesi. Alla sua morte Basino fu sepolto nella chiesa a di San Massimino.
Allorché nel 942 la chiesa, ricostruita dopo un incendio, fu consacrata, si procedette alla traslazione dei corpi di alcuni vescovi sotto l'altare maggiore: alcune relazioni più recenti ricordano anche la traslazione delle reliquie di Basino.
Il 29 agosto 1621, allorché la stessa chiesa, rinnovata, venne nuovamente consacrata, le sue reliquie furono traslate nell'altare di una cappella nel coro.
Il nome di Basino appare ricordato, come vescovo e martire, il 4 marzo nell'antico Martirologio di Treviri. La sua festa è celebrata il 4 marzo nell'Ordine benedettino e nella diocesi di Treviri.

(Autore: Gian Michele Fusconi – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Basino di Treviri, pregate per noi.

*San Casimiro - Principe Polacco (4 marzo)

Cracovia, Polonia, 3 ottobre 1458 – Grodno, Lituania, 4 marzo 1484
Nasce a Cracovia, nel 1458. Figlio del Re di Polonia, appartenente alla dinastia degli Jagelloni, di origine lituana.
Quando gli Ungheresi si ribellarono al loro re, Mattia Corvino, e offrirono al tredicenne principe Casimiro la corona, questi vi rinunciò appena seppe che il Papa si era dichiarato contrario alla deposizione del regnante.
Impegnato in una politica di espansione, re Casimiro IV (1440-1492) diede al terzogenito l'incarico di reggente di Polonia e il principe, minato dalla tubercolosi, svolse il compito senza
lasciarsi irretire dalle seduzioni del potere.
Non si piegò alle ragioni di Stato quando gli venne proposto dal padre il matrimonio con la figlia di Federico III, per allargare i già estesi confini del regno.
Il principe Casimiro non voleva venir meno al suo ideale ascetico di purezza per vantaggi materiali cui non ambiva. Di straordinaria bellezza, ammirato e corteggiato, Casimiro aveva riservato il suo cuore alla Vergine.
Si spegne a 25 anni a Grodno (in Lituania) il 4 marzo 1484.
Nel 1521 papa Leone X lo dichiarò patrono della Polonia e della Lituania. (Avvenire)
Patronato: Polonia e Lituania
Etimologia: Casimiro = che vuole la pace, dal polacco
Emblema: Corona, Giglio, Pergamena
Martirologio Romano: San Casimiro, figlio del Re di Polonia, che, principe, rifulse per lo zelo nella fede, la castità, la penitenza, la generosità verso i poveri e la devozione verso l’Eucaristia e la Beata Vergine Maria e ancora giovane, consunto dalla tisi, nella città di Grodno presso Vilnius in Lituania si addormentò nella grazia del Signore.  
Il principe Casimiro, soprannominato dai suoi compatrioti “uomo di pace”, nacque a Cracovia il 3  ottobre 1458, terzo dei tredici figli di Casimiro IV, re di Polonia, e di Elisabetta d’Austria, figlia dell’imperatore Alberto II.
Il matrimonio tra i due, rivelatasi un’unione felice oltre che fertile, era stato combinato con l’aiuto di Giovanni Dlugosz, storiografo e canonico di Cracovia, religioso schivo ma di grande erudizione e santità.
Proprio a lui fu dunque affidata l’educazione di Casimiro quando questi raggiunse l’età di nove anni ed il sacerdote si rivelò un ottimo insegnante, severo al punto giusto, quasi un secondo padre per il piccolo principe.
Non ancora quindicenne, in seguito alla richiesta da parte della nobiltà ungherese, il padre inviò Casimiro a guidare un esercitò contro il sovrano ungherese, Mattia Corvino.
Quando però Casimiro venne a sapere che Mattia disponeva di truppe ben più numerose delle sue e si rese conto di essere stato abbandonato sia dalla nobiltà ungherese che in un primo tempo aveva richiesto il suo intervento, ma anche dalle proprie truppe in diserzione, accolse favorevolmente il consiglio dei suoi ufficiali ed interruppe la spedizione.
Intanto il pontefice Sisto IV, temendo forse che la guerra rischiasse solo di favorire la causa turca, aveva  inoltrato un appello di desistenza al sovrano polacco.
Il re, dimostratosi disponibile ad un colloquio di pace, inviò un messaggero al figlio, che però con sua grande vergogna scoprì già ritiratosi.
Per castigo fu vietato a Casimiro di fare ritorno a Cracovia e venne rinchiuso per tre mesi nel castello di Dobzki.
Nonostante le pressioni del padre e le nuove richieste da parte dei nobili magiari, Casimiro non si lasciò mai più persuadere ad abbracciare le armi.
Pare che il giovane principe non ambisse a posizioni di governo e preferiva piuttosto attivarsi in favore dei poveri, degli oppressi, dei pellegrini e dei prigionieri.
Era solito infatti denunciare al re suo padre tutte le ingiustizie nei confronti dei poveri ed ogni loro necessità di cui veniva a conoscenza. Grande gioia provò quando decise di dovare tutti i suoi beni ai bisognosi, che presero a definirlo “difensore dei poveri”.
La sua vita fu da allora più monastica che principesca, il suo carattere mite ed umile lo spinse ad occuparsi più della Chiesa che della vita di corte.
Trascorreva infatti gran parte del suo tempo in chiesa, tra preghiera personale e funzioni liturgiche, spesso dimenticandosi addirittura di mangiare, e di notte tornava a pregare dinnanzi ai portoni chiusi della chiesa.
Solitamente gentile con tutti, fu però duro contro gli sismatici: proprio dietro sua insistenza il padre vietò il restauro delle chiese ove essi erano soliti riunirsi.
Grande devoto della Madonna, nella sua bara fu posta una copia del suo inno preferito: “Omni die dic Marie”.
Nessuno riuscì a convincerlo a convolare a nozze con la promessa sposa, una figlia di San Ferdinando III di Castiglia.
Egli sosteneva di non conoscere altra salvezza se non in Cristo e profetizzava la sua vicina scomparsa per stare con Lui in eterno.
Casimiro morì infatti di tubercolosi, a soli ventisei anni, il 4 marzo 1484 a Grodno.
Le sue spoglie trovarono sepoltura nella cattedrale di Vilnius, odierna capitale lituana, ove ancora oggi sono venerate.
Sulla sua tomba si verificarono moltissimi miracoli ed il re Sigismondo decise di inoltrare al Papa Leone X una petizione per richiedere la canonizzazione del principe polacco.
Nel 1521 tale papa dichiarò San Casimiro patrono della Polonia e della Lituania, ma fu ufficialmente canonizzato  solo nel 1602 dal Pontefice Clemente VIII e nel 1621 la sua festa venne estesa alla Chiesa universale.
Il culto del santo è rimasto assai vivo anche tra i polacchi ed i lituani emigrati in America.
Vasta è l’iconografia di questo santo polacco: celebre è il suo ritratto eseguito da Carlo Dolci e molti altri dipinti lo raffigurano con in mano una pergamena, riportante alcune parole del suo inno mariano prediletto, ed un giglio, simbolo di castità.
San Casimiro è infatti particolarmente invocato contro le tentazioni carnali.
Dalla "Vita di San Casimiro", scritta da un autore quasi contemporaneo.
La carità quasi incredibile, certamente non simulata ma sincera, di cui ardeva verso Dio onnipotente per opera di quello Spirito divino, era talmente diffusa nel cuore di Casimiro, tanto traboccava e dalle profondità del cuore tanto si riversava sul prossimo, che nulla gli era più gradito, nulla più desiderato che donare ai poveri di Cristo, ai pellegrini, ai malati, ai prigionieri, ai perseguitati non solo i propri beni, ma tutto se stesso.
Per le vedove, gli orfani, gli oppressi fu non solo un protettore, non solo un difensore, ma un padre, un figlio, un fratello.
E qui sarebbe necessario scrivere una lunga storia se si volessero descrivere i singoli atti di carità e di grande amore che in lui fiorirono verso Dio e verso gli uomini.
In che misura poi egli praticò la giustizia e abbracciò la temperanza, di quanta prudenza fu dotato e da quale fortezza e costanza d'animo fu sostenuto, soprattutto in quell'età più libera nella quale gli uomini di solito sono più sconsiderati e per natura più inclini al male, é difficile  dire o pensare.
Ogni giorno persuadeva il padre a praticare la giustizia nel governo del regno e dei popoli a lui sottomessi.
E mai tralasciò di riprendere con umiltà il re se talvolta, per incuria o per debolezza umana, qualcosa veniva trascurato nel governo.
Difendeva ed abbracciava come sue le cause dei poveri e dei miserabili, per cui dal popolo veniva chiamato difensore dei poveri.
E benché fosse figlio del re e nobile per la dignità della nascita, mai si mostrava superiore nel tratto e nella conversazione con qualsiasi persona, per quanto umile e di bassa condizione.
Volle sempre essere considerato fra i miti ed i poveri di spirito, ai quali appartiene il regno dei cieli, piuttosto che fra i potenti e i grandi di questo secolo.
Non desiderò il supremo potere, né mai lo volle accettare quando gli fu offerto dal padre, temendo che il suo animo fosse ferito dagli stimoli delle ricchezze, che il nostro Signore Gesù Cristo ha chiamato spine, o fosse contaminato dal contagio delle cose terrene.
Tutti i suoi domestici e segretari, uomini insigni e ottimi, dei quali alcuni sono ancora viventi e che lo conobbero intimamente, asseriscono e testimoniano che egli visse vergine fino alla fine e vergine chiuse il suo ultimo  giorno.(Cap. 2-3; Acta Sanctorum Martii 1, 347-348)
Orazione
O Dio onnipotente, che chiami a servirti per regnare con te,
fa’ che per intercessione di San Casimiro
viviamo costantemente al tuo servizio
nella santità e nella giustizia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.   
(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Casimiro, pregate per noi.

*Beati Cristoforo Bales, Alessandro Blake e Nicola Horner - Martiri (4 marzo)
+ Londra, Inghilterra, 4 marzo 1590
Il Sacerdote Christopher Bales fu beatificato nel 1929, mentre i laici Nicholas Horner ed Alexander Blake vennero Beatificati nel 1987.
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, Beati Cristoforo Bales, Sacerdote, Alessandro Blake e Nicola Horner, Martiri, che durante la persecuzione al tempo della regina Elisabetta I ricevettero insieme la corona della gloria.  
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beati Cristoforo Bales, Alessandro Blake e Nicola Horner, pregate per noi.

*Beato Daniele Dajani - Sacerdota Gesuita, Martire (4 marzo)

Scheda del Gruppo a cui appartiene:
"Beati Martiri Albanesi" (Vincenzo Prennushi e 37 compagni) - 5 novembre

Blinisht, Albania, 2 dicembre 1906 – Scutari, Albania, 4 marzo 1946

Daniel Dajani, allievo del Seminario di Scutari dall’adolescenza, entrò ventenne nella Compagnia di Gesù. Si dedicò in particolare all’insegnamento in Seminario e all’istruzione religiosa degli abitanti dei paesi in montagna. Il 31 dicembre 1945 venne arrestato dalla polizia del regime comunista albanese insieme al confratello padre Giovanni Fausti; sottoposto a torture, non perse mai la calma e la fede.
A seguito di un processo-farsa, venne condannato a morte insieme al confratello padre Giovanni Fausti, al francescano GjonShllaku, al seminarista Mark Çuni e ai laici GjeloshLulashi eQerimSadiku: la sentenza fu eseguita il 4 marzo 1946, presso il cimitero cattolico di Scutari. Insieme ai suoi compagni di martirio, è stato incluso nell’elenco dei 38 martiri albanesi beatificati il 5 novembre 2016 a Scutari.
Gesuita albanese di nascita
Daniel Dajani nacque il 2 dicembre 1906 a Blinisht, nella pianura di Zadrine, a sud-est di Scutari in Albania. Ad appena dodici anni entrò nel Pontificio Seminario di Scutari, diretto dai padri della Compagnia di Gesù.
A 20 anni, l’8 luglio 1926, entrò nel Noviziato dei Gesuiti a Gorizia, poi studiò filosofia dal 1931 al 1933 a Chieri. Insegnò nel Seminario di Scutari dal 1934 al 1935, per ritornare a Chieri, dal 1937 al 1939, per studiare Teologia e ricevere, il 15 luglio 1938, l’ordinazione sacerdotale.
Nel 1940 ritornò nel Seminario di Scutari come professore e s’impegnò nell’attività pastorale della "missione volante".
Si trattava di un’attività di apostolato dedicata specialmente all’istruzione religiosa e alla riconciliazione tra i clan familiari nei paesi di montagna.
Il 2 febbraio 1942 fece la sua professione religiosa. Proseguì per tre anni nel suo compito d’insegnante e di pacificatore.
L’inizio della persecuzione
Intanto l’Albania, scossa dalla seconda guerra mondiale, era occupata dai tedeschi. Quando le truppe di Hitler si ritirarono alla fine del 1944, subentrarono al potere i partigiani comunisti comandati da EnverHoxha, che presero a mettere in atto una campagna di discredito e soprusi nei confronti dei cattolici.
Si accanirono in maniera particolare contro i vescovi, i francescani e i Gesuiti; questi ultimi perché, attraverso l’educazione dei giovani, contribuivano alla formazione culturale delle classi dirigenti del Paese, specie nel Nord.
Padre Daniel, che avrebbe voluto proseguire con i suoi viaggi di riconciliazione, venne nominato Rettore del Seminario di Scutari,nel settembre 1945.
Il suo atteggiamento sereno e la sua fermezza erano particolarmente lodati dai suoi studenti, che rassicurava soprattutto mediante le sue azioni.
L’arresto
Nel mese di dicembre uno degli studenti del Seminario, FranGaçi, morì in casa propria, dopo essere stato torturato dalla Sigurimi (la polizia segreta) e rilasciato. Il 31 dicembre, insieme a padre Giovanni Fausti, da otto mesi viceprovincialedei Gesuiti in Albania e suo predecessore come rettore, si recò nel villaggio d’origine del giovane, per una Messa di suffragio: nell’omelia, dichiarò apertamente che chiunque volesse seguire le orme diFranGaçi dovesse essere fiero di morire per la fede cristiana.
La sera stessa, appena tornati a Scutari, i due sacerdoti vennero arrestati. Padre Daniel fu tenuto in isolamento per due mesi e, anche in seguito, fu sottoposto a torture. Non si abbatté mai né si disperò, ma continuò a pensare agli altri prigionieri.
Il processo
Nel gennaio 1946, insieme ad altri prigionieri, venne sottoposto a un processo che, in realtà, aveva la conclusione già scritta. Padre Daniel, con i segni delle torture ancora visibili sul volto, rispose con fermezza alle accuse che venivano rivolte a lui e agli altri: la principale, quella di essere politicanti traditori della nazione, asserviti agli occidentali e spie del Vaticano.
Ad essa si aggiungeva quella di essere i capi dell’Unione Albanese: in realtà, era lo pseudonimo con cuii seminaristi Mark Çuni e Gjergj Bici avevano firmato alcuni volantinicon cui avevano cercato di contrastare la propaganda comunista, stampati in proprio e senza farne parola con i superiori.
Sul finire del processo, uno dei giudici militari gli si rivolse per l’ultima volta: «Voi credete in Dio e in suo figlio Gesù Cristo?». Il gesuita rispose: «Io credo sin dalla mia infanzia e sono pronto a morire per rendere testimonianza della mia fede».
Con sarcasmo, l’altro replicò: «Vedremo se questo Gesù Cristo salverà la vostra testa dalla giustizia del tribunale popolare!». Il sacerdote, senza scomporsi né alzare il tono, proseguì: «Io e i miei compagni consideriamo un privilegio morire per Gesù Cristo, perché il nostro sacrificio sarà fonte di nuovi martiri della fede cristiana», aggiungendo: «Forse un giorno il popolo capirà quale errore è stato commesso». Pronunciò quindi la sua estrema difesa: «Non chiedo pietà, ma giustizia di fronte a questo tribunale».
Il martirio
Il 22 febbraio 1946 vennero lette le sentenze. Otto furono i condannati a morte per fucilazione: padre GjonShllaku, padre Giovanni Fausti, padre Daniel Dajani, i seminaristi Mark Çuni e Gjergj Bici, i laici GjeloshLulashi, FranMirakaj e QerimSadiku.
Gli altri furono invece destinati al carcere, per un periodo che poteva andare dai cinque anni all’intera vita, di fatto, se avessero anche minimamente trasgredito. Per Gjergj Bici la sentenza venne poi cambiata in anni di lavori forzati, mentre FranMirakaj risulta che sia morto nel settembre 1946.
All’alba del 4 marzo, i sei rimasti furono trasportati al cimitero cattolico di Scutari, luogo della loro esecuzione. Alle 6 in punto venne dato l’ordine di fare fuoco agli otto soldati del plotone, armati di mitragliatrici.
Padre Daniel pronunciò quindi le sue ultime parole: «Perdono tutti coloro che mi hanno fatto del male. Sono contento di poter morire da innocente piuttosto che da colpevole. Che i miei genitori offrano dei soldi a padre ZefShllaku per celebrare due Messe per me». Il grido comune dei condannati fu: «Viva Cristo Re! Viva l’Albania!».
La fama di santità e la beatificazione
La notizia del martirio di padre Daniel Dajani e dei suoi compagni si diffuse celermente in tutto il mondo cattolico, suscitando dolore e stupore. Il 31 ottobre 1947 morì un altro gesuita, il fratello laico GjonPantalia.
Poco dopo l’esecuzione dei padri Dajani e Fausti, il regime abolì le istituzioni gesuite e sciolse ufficialmente la Compagnia in Albania. Nel 1990, dopo le prime aperture alla vita religiosa, tornò una prima missione.
Nell’elenco di 38 martiri uccisi sotto il regime comunista in Albania e capeggiati dal vescovo VincençPrennushi, figurano anche padre Daniel Dajani e i suoi compagni. Sono stati tutti beatificati il 5 novembre 2016 nella piazza davanti alla cattedrale di Santo Stefano a Scutari.

(Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Daniele Dajani, pregate per noi.

*Santi Fozio, Archelao, Quirino e diciassette Compagni - Martiri (4 marzo)  

Martirologio Romano: A Nicomedia in Bitinia, nell’odierna Turchia, Santi Fozio, Archelao, Quirino e altri diciassette, martiri.
Santi Archelao, Cirillo e Fozio, Martiri di Nicomedia
Nel Breviario Siriaco del 411-412 è chiaramente ricordato al 4 marzo il martirio di Archelao, Cirillo e Fozio con sedici compagni, a Nicomedia.
Nei diversi martirologi, il numero dei compagni varia da sedici, diciassette a 142 o 150, 152. Il genere di martirio subito da più fonti è indicato nella decapitazione, mentre l'epoca è sconosciuta.
Nella chiesa di Santo Stefano a Bologna, a detta di Massimo, sono le reliquie di un Archelao e un Cirillo; tuttavia è impossibile identificare questi con i martiri di Nicomedia.
La festa è celebrata in prevalenza il 4 marzo, anche se i Martiri si trovano ricordati sin o tutti insieme anche il 3, il 5 e il 20 marzo.
Da ultimo segnaliamo che nel lezionario di Parigi del Calendario palestino-georgiano, al 9 febbraio è citato «Archelai martyris», e Goussen ha pensato di poter identificare questo martire con Archelao.
Ma nel ms. georgiano si legge arke martwli; e poiché arke sarebbe una forma inusitata per arkelaor e, d'altra parte, non esiste alcun Archelao ricor il 9 febbraio, bisogna concludere che arke martwli è una corruzione di arkimandriti, cioè «archimandrita», riferito all'egumeno Teodoro che nel calendario precede immediatamente que citazione.

(Autore: Gian Domenico Gordini – Fonte: Eciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Fozio, Archelao, Quirino e diciassette Compagni, pregate per noi.

*Beato Giovanni Antonio Farina Vescovo (4 marzo)
Gambellara (Vicenza), 11 gennaio 1803 - Vicenza, 4 marzo 1888
Grande figura di vescovo ed educatore, Giovanni Antonio Farina nacque a Gambellara, in provincia di Vicenza, nel 1803. Entrato in seminario giovanissimo fu subito notata la sua predisposizione per l'insegnamento, al punto che a soli 21 anni, quando ancora studiava teologia, gli venne affidato il compito di tenere delle lezioni.
Ordinato sacerdote nel 1827 svolse i primi anni del suo ministero a Vicenza.  
E fu qui che intuì il valore sociale che poteva avere l'insegnamento. Nel 1831 diede inizio alla prima scuola popolare femminile e nel 1836 fondò le Suore Maestre di santa Dorotea Figlie dei Sacri Cuori, un istituto di «maestre di provata vocazione, consacrate al Signore e dedite interamente all'educazione delle fanciulle povere».
Nel 1850 il Papa lo nominò Vescovo di Treviso, dove si distinse in maniera particolare per la sua carità, tanto da essere chiamato il «vescovo dei poveri». Nel 1860 fu poi trasferito alla sede vescovile di Vicenza.
In questa veste partecipò ai lavori del Concilio Vaticano I, dove sostenne con forza la definizione dell'infallibilità pontificia. Morì a Vicenza il 4 marzo 1888. (Avvenire)
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Vicenza, beato Giovanni Antonio Farina, vescovo, che in vari modi si adoperò nell’azione pastorale e fondò l’Istituto delle Suore Maestre di Santa Dorotea Figlie dei Sacri Cuori per provvedere all’educazione delle ragazze povere e a tutti gli afflitti e gli emarginati.  
Non ci sono ancora scuole pubbliche nel suo luogo di nascita, e i genitori (Pietro e Francesca Bellame) lo affidano per la prima istruzione a uno zio sacerdote. A quindici anni entra nel seminario vescovile di Vicenza: la sua vocazione religiosa si è fatta chiara assai presto, e col tempo si accompagnerà alla passione per l’insegnamento. A 21 anni, mentre studia teologia, fa già scuola ai ragazzi dei corsi inferiori.
A 24 anni viene ordinato Sacerdote, conservando l’incarico in seminario; e ottiene la “patente” di insegnante elementare, assumendo i primi incarichi nelle scuole pubbliche di Vicenza (che all’epoca appartiene al Regno Lombardo- Veneto, sotto gli Asburgo d’Austria). Lavora nelle scuole che ci sono. Ma pensa a quelle che mancano, soprattutto nelle campagne. L’analfabetismo è ancora molto diffuso, in particolare tra le ragazze, che così si trovano confinate in un’esistenza subalterna.
A 28 anni, nel 1831, fa nascere in Vicenza una scuola popolare femminile, e lavora a un progetto molto audace  per il suo tempo e la sua età: creare una congregazione di suore insegnanti. E a 33 anni istituisce le “Suore Maestre di Santa Dorotea, Figlie dei Sacri Cuori”, chiamate a istruire non solo le ragazze di buona famiglia, ma soprattutto le altre, quelle indifese a causa della miseria oppure colpite da infermità permanenti e gravi, come cieche e sordomute. Bastano tre anni al nuovo istituto per ottenere da Gregorio XVI (nel 1839) il decretum laudis, che è un iniziale riconoscimento pontificio.
Il fondatore prepara la novità successiva: all’insegnamento, le Dorotee aggiungeranno il servizio ai malati, come infermiere negli ospedali. Volontarie anche sul fronte della sofferenza fisica, dunque, con tutto lo slancio: ma soprattutto con l’indispensabile professionalità. Lui forse non pronuncerà mai testualmente questa parola; tuttavia concretizza l’idea nelle sue esigenti direttive: studio, preparazione accurata in medicina e pronto soccorso, attenzione all’igiene.
L’infermiera d’ospedale come la vuole lui è una figura ancora quasi sconosciuta in Italia, dove manca perfino un manuale che prepari a questo lavoro. Penserà lui a procurarlo, facendo tradurre un testo francese e presentandolo alle Dorotee con questa epigrafe: «Un’infermiera deve avere il cuore di una madre, il sangue freddo di un medico, la pazienza di un santo. Cure intelligenti guariscono quanto i rimedi».
A metà secolo diventa vescovo: dal 1851 a Treviso e dal 1860 fino alla morte a Vicenza. Non sempre in clima propizio, tuttavia: a Treviso ci sono incomprensioni e conflitti con i canonici
della cattedrale; a Vicenza riceve accuse ingiuste. A tutto reagisce col rimanere sé stesso: rispondono per lui le opere passate e recenti di rinnovatore della scuola e dell’assistenza ospedaliera, di protagonista di una pastorale fondata «sull’educazione del cuore». Parla per lui chi lo ha visto fare l’infermiere in ospedale, di persona. Così, a pochi anni dalla morte, già si incomincia a parlare di grazie dovute alla sua intercessione.
Nell’anno della sua morte in Vicenza, è nata a Gioia di Brendola, lì vicino, Anna Francesca Boscardin, che col nome di Maria Bertilla sarà la sua prima infermiera proclamata santa. Nel 1905, la regola delle Maestre Dorotee viene approvata definitivamente da Pio X, che è stato ordinato sacerdote da lui nel 1858. Giovanni Antonio Farina è proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 2001. I suoi resti riposano a Vicenza, nella Casa madre della sua congregazione. (Autore: Domenico Agasso “Famiglia Cristiana”)
Nato a Gambellara (Provincia di Vicenza) l’11 gennaio 1803 da Pietro e Francesca Bellame, Giovanni Antonio Farina ricevette la prima formazione dallo zio paterno, un santo sacerdote che fu per lui vero maestro di spirito e anche suo precettore, non essendoci all’epoca scuole pubbliche nei piccoli paesi. A quindici anni entrò nel seminario diocesano di Vicenza dove frequentò tutti i corsi distinguendosi per bontà d’animo e una particolare attitudine allo studio. A 21 anni, mentre ancora frequentava la teologia, venne destinato all’insegnamento in seminario, rivelando spiccate doti di educatore.
Il 14 gennaio 1827 ricevette l’ordinazione sacerdotale e subito dopo conseguì il diploma di abilitazione all’insegnamento nelle scuole elementari. Nei primi anni di ministero ebbe vari incarichi: la docenza in seminario per 18 anni, la cappellania di San Pietro in Vicenza per 10 anni e la partecipazione a varie istituzioni culturali, spirituali e caritative cittadine, tra cui la direzione della scuola pubblica elementare e liceale.  
Nel 1831 diede inizio in Vicenza alla prima scuola popolare femminile e nel 1836 fondò le Suore Maestre di S. Dorotea Figlie dei Sacri Cuori, un istituto di «maestre di provata vocazione, consacrate al Signore e dedite interamente all'educazione delle fanciulle povere». Subito egli volle che le sue religiose si dedicassero anche alle fanciulle di buona famiglia, alle sordomute e alle cieche; le inviò quindi all'assistenza degli ammalati e degli anziani negli ospedali, nei ricoveri e a domicilio. Il 1° marzo 1839 ottenne il decreto di lode da papa Gregorio XVI; le Regole da lui elaborate rimasero in vigore fino al 1905, quando l’Istituto venne approvato da papa Pio X, ordinato sacerdote dallo stesso vescovo Farina.
Nel 1850 fu eletto vescovo di Treviso e ricevette la consacrazione episcopale il 19 gennaio 1851. In questa diocesi svolse una multiforme attività apostolica: iniziò subito la visita pastorale e organizzò in tutte le parrocchie associazioni per l’aiuto materiale e spirituale agli indigenti, tanto da essere chiamato «il vescovo dei poveri». Incrementò la pratica degli esercizi spirituali e l’assistenza ai sacerdoti poveri e infermi; curò la formazione dottrinale e culturale del clero e dei fedeli, l’istruzione e la catechesi della gioventù. L’intero decennio del suo episcopato a Treviso fu turbato da questioni giuridiche con il Capitolo della cattedrale; queste gli crearono profonda sofferenza e condizionarono la realizzazione del suo programma pastorale frenando molte iniziative, fino a impedirgli la celebrazione del sinodo diocesano.
Il 18 giugno 1860 venne trasferito alla sede vescovile di Vicenza, ove mise in atto un vasto programma di rinnovamento e svolse una imponente opera pastorale orientata alla formazione culturale e spirituale del clero e dei fedeli, all’insegnamento catechistico dei fanciulli, alla
riforma degli studi e della disciplina nel seminario. Indisse il sinodo diocesano che non veniva celebrato dal 1689; nella visita pastorale percorse talvolta vari chilometri a piedi o con la mula, per raggiungere anche i paesini di montagna che non avevano mai visto un vescovo. Istituì numerose confraternite per il soccorso ai poveri e ai sacerdoti anziani e per la predicazione di esercizi spirituali al popolo; incrementò una profonda devozione al Sacro Cuore di Gesù, alla Madonna e all’Eucaristia. Tra il dicembre 1969 e il giugno 1870 partecipò al Concilio Vaticano I, ove fu tra i sostenitori della definizione dell’infallibilità pontificia.
Gli ultimi anni della vita furono contrassegnati da aperti riconosci-menti per la sua attività apostolica e la sua carità, ma anche da profonde sofferenze e da ingiuste accuse di fronte alle quali egli reagì con il silenzio, la tranquillità interiore e il perdono, con fedeltà alla propria coscienza e alla regola suprema della «salute delle anime». Dopo una prima grave malattia nel 1886, le sue forze fisiche si indebolirono gradatamente, fino all’attacco di apoplessia che lo portò alla morte il 4 marzo 1888.
Il suo messaggio di santità
Giovanni Antonio Farina fu un pastore zelante che non conobbe la mediocrità e camminò costantemente verso le vette della santità. Era sorretto da straordinario zelo sacerdotale nell’educare la gioventù, nell’animare la vita  cristiana e nell’impegno per formare sacerdoti misericordiosi e oranti, come egli stesso testimoniò con la vita.
La virtù che più colpisce in lui è la carità eroica, tanto che venne definito «l’uomo della carità».
I poveri, gli infelici, gli abbandonati, i sofferenti di ogni genere furono l’oggetto della sua tenerezza e delle sue cure; vescovo, si offrì egli stesso volontario per assistere spiritualmente e corporalmente gli ammalati dell’ospedale, trascinando con l’esempio i suoi Sacerdoti. La sua era una carità intelligente, lungimirante; da vero educatore, comprese il ruolo della scuola nella riforma della società, la necessità della collaborazione tra scuola e famiglia, l’importanza della preparazione del personale insegnante. Concepì l’educazione orientata alla formazione integrale della persona umana, alla pratica religiosa e alla carità fraterna. Suo motto era: «La vera scienza sta nell’educazione del cuore, cioè nel pratico timore di Dio».  
Dopo la sua morte la fama di santità andò crescendo negli ambienti ecclesiastici e civili; fin dal 1897 si cominciò a ricorrere alla sua intercessione per ottenere grazie e favori celesti. Nel 1978 una suora ecuadoriana, Suor Inés Torres Cordova, colpita da grave tumore con metastasi diffuse, guarì miracolosamente dopo avere invocato il padre fondatore insieme alle sue consorelle. Questo Vescovo della carità, vissuto in una difficile situazione storica della Chiesa italiana nel XIX secolo, ha un autentico valore di attualità e possiede ancor oggi la fecondità spirituale delle persone di prua nella Chiesa e per la Chiesa del terzo millennio. La diocesi di Vicenza lo celebra il 14 gennaio.
(Fonte: Santa Sede)
Giaculatoria - Beato Giovanni Antonio Farina, pregate per noi.

*Beato Giovanni Fausti - Sacerdote Gesuita, Martire (4 marzo)
Scheda del Gruppo a cui appartiene:
"Beati Martiri Albanesi" (Vincenzo Prennushi e 37 compagni) - 5 novembre

Marcheno, Brescia, 9 ottobre 1899 – Scutari, Albania, 4 marzo 1946
Giovanni Fausti, nativo della Val Trompia, frequentò il Seminario di Brescia e, dopo la chiamata alle armi, il Pontificio Seminario Lombardo di Roma. Ordinato sacerdote il 9 luglio 1922, entrò due anni più tardi nella Compagnia di Gesù.
Inviato in Albania, intraprese un attento cammino di dialogo con l’Islam. Fu poi richiamato in Italia, ma tornò in Albania nel 1942; tre anni dopo, fu nominato viceprovinciale. Arrestato il 31
dicembre 1945 insieme al confratello Daniel Dajani, suo successore come rettore del Seminario di Scutari, venne processato con l’accusa di essere una spia per conto del Vaticano. Il 4 marzo 1946 venne fucilato presso il cimitero cattolico di Scutari insieme a padre Dajani, al francescano Gjon Shllaku, al seminarista Mark Çuni e ai laici Gjelosh Lulashi e Qerim Sadiku. Con i suoi compagni di martirio, padre Giovanni Fausti è stato incluso nell’elenco dei 38 martiri albanesi beatificati il 5 novembre 2016 a Scutari.
Infanzia e vocazione
Giovanni Fausti nacque a Brozzo, frazione di Marcheno, in Val Trompia (in provincia e diocesi di Brescia) il 9 ottobre 1899, primo dei dodici figli di Antonio Fausti e Maria Sigolini, genitori religiosi e inclini alla carità.
Fanciullo felice e sereno, maturò la vocazione sacerdotale e a 10 anni entrò nel Seminario di Brescia, dove ebbe come compagno di studi Giovanni Battista Montini, il futuro Beato Paolo VI.
La chiamata alle armi e l’ordinazione sacerdotale
Verso i 18 anni, nel 1917, fu chiamato alle armi e dovette interrompere gli studi. Nel 1920, dopo aver seguito un corso all’Accademia Militare di Modena, fu mandato in servizio a Roma dove frequentò la Facoltà di Lettere presso l’Università.
Congedato nello stesso 1920 col grado di sottotenente di artiglieria, riprese gli studi presso il Pontificio Seminario Lombardo di Roma.
Fu quindi ordinato sacerdote il 9 luglio 1922, laureandosi poi in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in filosofia all’Accademia San Tommaso. Nel 1923 era già professore di filosofia nel Seminario di Brescia.
Nella Compagnia di Gesù
Il 30 ottobre 1924, con il permesso del suo vescovo, entrò nella Compagnia di Gesù a Gorizia. Dal 1929 al 1932 fu inviato in Albania come professore di filosofia presso il Pontificio Seminario di Scutari, affidato ai Gesuiti. Imparò celermente la difficile lingua albanese, compiendo studi approfonditi sull’Islam per poter avviare un serio e concreto dialogo fra islamici e cristiani.
Negli anni dal 1931 al 1933 scrisse una serie di articoli su questo tema, per le pagine della rivista «La Civiltà Cattolica», che furono poi raccolti e pubblicati nel volume «L’Islam nella luce del pensiero cattolico». Sempre in quest’ottica, fondò la Lega «Amici Oriente Islamico», diffusa in Italia e all’estero.
A Mantova e Gallarate
Nel 1932 fu richiamato in Italia a Mantova, come professore di filosofia e "ministro", ovvero responsabile di quella comunità gesuitica. Lì si manifestarono i sintomi della tubercolosi, malattia di cui era già stato affetto in forma leggera quand’era in Albania. Pertanto, dall’agosto 1933 e fino al 1936, dovette sottoporsi a cure lunghe e specifiche, prima in Alto Adige e poi a Davos in Svizzera.
All’inizio del 1936 riprese l’insegnamento, questa volta alla Facoltà «Aloisianum» di Gallarate (in provincia di Varese e diocesi di Milano), dove, il 2 febbraio 1936, emise la professione solenne. A Gallarate rimase sei anni, dimostrando eminenti doti pedagogiche e intellettuali. Nello stesso periodo scrisse il volume «Teoria dell’astrazione», pubblicato postumo nel 1947.
Di nuovo in Albania
I Superiori della Compagnia di Gesù, coscienti delle sue doti e virtù, nel luglio 1942 decisero di affidargli un compito delicato e molto arduo, quello di Rettore del Pontificio Seminario di Scutari in Albania e dell’annesso Collegio Saveriano. Dopo un anno, nel 1943, trasferì i suoi incarichi a un gesuita albanese, padre Daniel Dajani.
Si spostò poi a Tirana, dove fu impegnato a difendere ed assistere gli italiani e gli albanesi, sia cristiani che musulmani, coinvolti nella tragedia della seconda guerra mondiale. Venne pure ferito da una pallottola tedesca che colpì l’apice del polmone sano, rompendogli la clavicola.
Gli inizi della persecuzione
La situazione peggiorò ancora quando, alla fine del 1944, i tedeschi si ritirarono e i partigiani comunisti, comandati da Enver Hoxha, conquistarono il potere ed effettuarono ogni sorta di soprusi nei confronti dei cattolici.
Si accanirono in maniera particolare contro i vescovi, i francescani e i Gesuiti; questi ultimi perché, attraverso l’educazione dei giovani, contribuivano alla formazione culturale delle classi dirigenti del Paese, specie nel Nord.
Fiduciosi nella prudenza di padre Giovanni, i superiori, nel maggio 1945, lo promossero Viceprovinciale dei Gesuiti in Albania.
L’arresto e il processo
Nel mese di dicembre uno degli studenti del Seminario, Fran Gaçi, morì in casa propria, dopo essere stato torturato dalla Sigurimi (la polizia segreta) e rilasciato. Il 31 dicembre, insieme a
padre Daniel Dajani, si recò nel villaggio d’origine del giovane, per una Messa di suffragio.
La sera stessa, appena tornati a Scutari, i due sacerdoti vennero arrestati. Padre Giovanni fu tenuto in isolamento per due mesi e, anche in seguito, fu sottoposto a torture. L’accusa, non provata, che fu rivolta loro era di essere politicanti traditori della nazione, asserviti agli occidentali e spie del Vaticano, oltre che di aver favorito la formazione dell’Unione Albanese.
Si trattava in realtà dello pseudonimo con cui i seminaristi Mark Çuni e Gjergj Bici avevano firmato alcuni volantini con cui avevano cercato di contrastare la propaganda comunista, stampati in proprio e senza farne parola con i superiori.
Ogni volta che doveva passare dalla prigione al tribunale, padre Giovanni veniva pesantemente insultato. Una donna, ad esempio, si fece avanti gridando con voce rabbiosa: «Una pallottola in fronte!» e, così dicendo, gli sputò in faccia. In risposta, lui fece un cenno col capo e commentò: «Perdona, o Padre, perché non sa quello che sta facendo!».
Il martirio
Il 22 febbraio 1946 vennero lette le sentenze. Otto furono i condannati a morte per fucilazione: padre Gjon Shllaku, padre Giovanni Fausti, padre Daniel Dajani, i seminaristi Mark Çuni e Gjergj Bici, i laici Gjelosh Lulashi, Fran Mirakaj e Qerim Sadiku. Gli altri furono invece destinati al carcere, per un periodo che poteva andare dai cinque anni all’intera vita, di fatto, se avessero anche minimamente trasgredito. Per Gjergj Bici la sentenza venne poi cambiata in anni di lavori forzati, mentre Fran Mirakaj risulta che sia morto nel settembre 1946.
All’alba del 4 marzo, i sei rimasti furono trasportati al cimitero cattolico di Scutari, luogo della loro esecuzione. Alle 6 in punto venne dato l’ordine di fare fuoco agli otto soldati del plotone, armati di mitragliatrici.
Padre Giovanni pronunciò quindi le sue ultime parole: «Sono contento di morire nell’adempimento del mio dovere. Salutatemi i fratelli gesuiti, i diaconi, i sacerdoti e l’arcivescovo». Il grido comune dei condannati fu: «Viva Cristo Re! Viva l’Albania!».
La fama di santità e la beatificazione
La notizia del martirio di padre Giovanni Fausti e dei suoi compagni si diffuse celermente in tutto il mondo cattolico, suscitando dolore e stupore. La Compagnia di Gesù, pochi anni dopo, ebbe un ulteriore martire, il fratello laico Gjon Pantalia, morto il 31 ottobre 1947.
Nell’elenco di 38 martiri uccisi sotto il regime comunista in Albania e capeggiati dal vescovo Vincenç Prennushi, figurano anche padre Giovanni Fausti e i suoi compagni. Sono stati tutti beatificati il 5 novembre 2016 nella piazza davanti alla cattedrale di Santo Stefano a Scutari.
(Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giovanni Fausti, pregate per noi.

*Beato Giovanni (Kolë) Shllaku - Sacerdote Francescano, Martire (4 marzo)
Scheda del Gruppo a cui appartiene:
"Beati Martiri Albanesi" (Vincenzo Prennushi e 37 compagni) - 5 novembre)

Scutari, Albania, 27 luglio 1907 – 4 marzo 1946

Nikollë o Kolë Shllaku, entrato giovanissimo nel collegio dei francescani a Scutari, divenne membro dell’Ordine dei Frati Minori, assumendo il nome di fra Gjon (ovvero Giovanni). Ordinato sacerdote nel 1931 in Belgio, rientrò in Albania e si dedicò all’insegnamento, all’attività accademica e alla lotta dialettica contro le ideologie del marxismo e del fascismo. Venne arrestato durante l’inverno del 1945 e sottoposto a un processo-farsa.
Venne quindi condannato a morte per fucilazione insieme ai padri gesuiti Giovanni Fausti e Daniel Dajani, al seminarista Mark Çuni e ai laici Gjelosh Lulashi, Qerim Sadiku: la sentenza fu eseguita il 4 marzo 1946 presso il cimitero cattolico di Scutari.
Insieme ai suoi compagni di martirio, è stato incluso nell’elenco dei 38 martiri albanesi beatificati il 5 novembre 2016 a Scutari.
Francescano di nazionalità albanese
Nikollë o Kolë (albanese per Nicola) Shllaku nacque a Scutari in Albania il 27 luglio 1907. Sin dalla scuola elementare frequentò il collegio tenuto dai Frati Minori nella sua città. Entrò come postulante del medesimo Ordine nel convento di Troshan, a quindici anni; con la professione religiosa assunse il nome di fra Gjon (in italiano Giovanni).
Venne mandato per gli studi teologici in Olanda, dove venne ordinato sacerdote nel 1931. In seguito, dal 1932 al 1936, frequentò la facoltà teologica di Lovanio, conseguendo il dottorato in Teologia.
Patriota e accademico
Rientrato a Scutari, insegnò Filosofia e Francese al liceo Illyrikum, del quale tempo prima era stato allievo a sua volta. La sua caratura intellettuale e spirituale lo rese ben presto noto tra i suoi studenti e non solo.
Con l’occupazione italiana dell’Albania, scelse la via dell’esilio in Jugoslavia. Un anno dopo rientrò in patria, assumendo la direzione della rivista «Hylli i Drites» («Stella del Mattino»). Nei suoi articoli, apertamente polemici, segnalava i rischi delle ideologie marxiste e fasciste. Ciò nonostante, invitava i suoi giovani studenti alla resistenza non violenta e a non cedere alla vendetta.
Alla morte, nel 1940, di padre Gjergj Fishta, esponente di spicco del francescanesimo albanese, padre Gjon prese il suo posto come capo morale della comunità religiosa. Organizzò quindi un ciclo di conferenze sul materialismo marxista, dove rispondeva punto per punto alle controversie, restando fedele all’insegnamento della Chiesa.
Gli inizi della persecuzione
La situazione politica albanese, intanto, cominciava a mutare con la presa del potere da parte di Enver Hoxha e con la persecuzione, sempre più palese, verso i credenti di tutte le fedi. L’accanimento era particolarmente feroce, tra i cattolici, verso i gesuiti e i francescani; questi ultimi erano tenuti di mira per i loro tentativi di consolidare l’anima popolare albanese.
Padre Gjon aveva subito intuito le mire del nuovo regime ed era stato avvisato da alcuni cattolici, aggregati ai comunisti per paura o ambizione, che il suo nome era nella lista dei sacerdoti da uccidere.
Ai giovani che lo circondavano in cerca di consigli poté quindi rispondere: «Ora questo sarà il mio cammino e non sarò né il primo né l’ultimo, sfortunatamente. Preghiamo affinché Dio ci dia la forza e il coraggio per affrontare il martirio».
L’arresto e il processo
Il pretesto per metterlo a tacere si verificò quando venne scoperta l’Unione Albanese, che altro non era se non lo pseudonimo con cui due studenti del Seminario di Scutari, Mark Çuni e Gjergj
Bici, avevano firmato alcuni volantini con cui avevano cercato di contrastare la propaganda comunista. Inizialmente stampati in proprio di nascosto col ciclostile del Seminario, vennero poi emessi dalla tipografia dei frati; tuttavia, nessuno dei superiori, sia gesuiti sia francescani, ne era al corrente.
Padre Gjon venne quindi arrestato durante l’inverno del 1945. Dopo settimane di torture, nel gennaio 1946, insieme ad altri prigionieri, venne sottoposto a un processo che, in realtà, aveva la conclusione già scritta. Le accuse che gli vennero rivolte erano quella di essere a capo dell’Unione Albanese, di collaborare con la resistenza degli abitanti delle montagne a nord del Paese e di pianificare la fondazione della Democrazia Cristiana albanese. In più, si aggiungeva la presunta organizzazione del "Complotto Nero" ai danni del governo, in complicità col Vaticano, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
Il martirio
Il 22 febbraio 1946 vennero lette le sentenze. Otto furono i condannati a morte per fucilazione: padre Gjon Shllaku, padre Giovanni Fausti, padre Daniel Dajani, i seminaristi Mark Çuni e Gjergj Bici, i laici Gjelosh Lulashi, Fran Mirakaj e Qerim Sadiku. Gli altri furono invece destinati al carcere, per un periodo che poteva andare dai cinque anni all’intera vita, di fatto, se avessero anche minimamente trasgredito.
Per Gjergj Bici la sentenza venne poi cambiata in anni di lavori forzati, mentre Fran Mirakaj risulta che sia morto nel settembre 1946.
All’alba del 4 marzo, i sei rimasti furono trasportati al cimitero cattolico di Scutari, luogo della loro esecuzione. Alle 6 in punto venne dato l’ordine di fare fuoco agli otto soldati del plotone, armati di mitragliatrici.
Padre Gjon pronunciò quindi le sue ultime parole: «Date il mio addio ai miei fratelli francescani e a tutti coloro che conosco e che mi conoscono». Il grido comune dei condannati fu: «Viva Cristo Re! Viva l’Albania!».
La fama di santità e la beatificazione
Con il crollo del regime e la ripresa delle attività religiose alla luce del sole, nel corso di una cerimonia organizzata il 28 febbraio 1993 dal governo democratico albanese, gli venne conferito il titolo di «martire della democrazia».
Nell’elenco di 38 martiri uccisi sotto il regime comunista in Albania e capeggiati dal vescovo Vincenç Prennushi, anche lui francescano, figurano pure padre Gjon Shllaku e i suoi compagni. Sono stati tutti beatificati il 5 novembre 2016 nella piazza davanti alla cattedrale di Santo Stefano a Scutari.
(Autore: Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giovanni Shllaku, pregate per noi.

*San Lucio I – 22° Papa (4/5 marzo)

m. 254
(Papa dal 25/06/253 al 05/03/254)

Romano. Non appena eletto venne arrestato e mandato in esilio, dal quale, "per volere di Dio, restò incolume", come si legge nei documenti ufficiali.
Etimologia: Lucio = luminoso, splendente, dal latino
Martirologio Romano: A Roma sulla via Appia nel cimitero di Callisto, deposizione di San Lucio, Papa, che, successore di San Cornelio, subì l’esilio per la fede in Cristo e, insigne testimone della fede, affrontò le difficoltà del suo tempo con moderazione e prudenza.   
Assurse al soglio pontificale il 25 giugno del 253, pochi giorni dopo la morte del suo predecessore Cornelio.
Non è dato sapere come ma nonostante il suo brevissimo pontificato riuscì ad emanare il decreto per il quale: "... ogni presbitero doveva essere accompagnato da due preti e tre diaconi... a testimonianza del comportamento di tutti".
Il suo papato, dopo la morte dell'imperatore Treboniano Gallo e l'evento di Valeriano, fu da considerarsi abbastanza tranquillo sul fronte delle persecuzioni.  
Dopo un breve esilio a Lucio fu concesso di ritornare a Roma.
Morì di morte naturale e fu sepolto nella cripta di san Callisto o forse di santa Cecilia.
Dapprima dichiarato santo per il suo martirio, Lucio fu successivamente cancellato dal Calendario Universale della Chiesa.  (Autore: Franco Prevato)
Dal   Martirologio Romano:  « 4 marzo - A Roma, sulla via Appia, il natale di San Lucio primo, Papa e Martire, il quale nella persecuzione di Valeriano per la fede di Cristo mandato prima in esilio, e poi per divino volere avendo ottenuto il permesso di ritornare alla sua Chiesa, finalmente, dopo essersi moltissimo affaticato contro i Novaziani, con la decapitazione compì il martirio. San Cipriano poi lo celebrò con somme lodi. »
La festa  di San Lucio si celebra il 4 marzo.
Biografia
Nato a Roma in data sconosciuta, nulla si sa della sua famiglia ad eccezione del nome di suo padre, Porfiriano, riportato nel Liber Pontificalis. Dove l'autore di questo documento abbia ricavato l'informazione è tuttavia ignoto.
Dopo la morte di Papa Cornelio, avvenuta in esilio nell'estate del 253, a succedergli come vescovo di Roma fu scelto Lucio. Poiché la  persecuzione della Chiesa che sarebbe iniziata, per le fonti cristiane, sotto l'imperatore Gaio Vibio Treboniano Gallo, e durante la quale Cornelio era stato
bandito, proseguiva, anche Lucio fu esiliato immediatamente dopo la sua consacrazione. Di lì a poco, presumibilmente quando Valeriano divenne imperatore, però, gli fu permesso di tornare in città. Il "Catalogo Feliciano", le cui informazioni si trovano nel  Liber Pontificalis, narrava del bando e del miracoloso ritorno di Lucio:  Hic exul fuit et postea nutu Dei incolumis ad ecclesiam reversus est.
San Cipriano, che scrisse una lettera di congratulazioni a Lucio per la sua elevazione alla sede romana e per il suo bando, gli spedì una seconda lettera in cui si compiaceva per il suo ritorno dall'esilio. La lettera iniziava:
«Amato Fratello, solamente poco tempo fa noi Vi offrimmo le nostre congratulazioni, quando nell'esaltarVi a governare la Sua Chiesa, Dio graziosamente vi diede la duplice gloria di confessore e vescovo. Di nuovo noi ci congratuliamo con Voi, i Vostri compagni, e la congregazione intera, perché, grazie alla generosa e potente protezione del nostro Dio, siete tornato per la Sua gloria, in modo che il gregge possa nuovamente avere il suo pastore, la nave il suo pilota, e le persone qualcuno che li governi e gli mostri apertamente che fu per volontà di Dio che il vescovo fu messo al bando, non che il vescovo fu espulso per essere privato della sua Chiesa, ma piuttosto perché vi ritorni con maggiore autorità.»
Cipriano continuava affermando che il ritorno dall'esilio non rimpiccioliva la gloria della professione e che la persecuzione, che era diretta solamente contro i confessori della vera Chiesa, aveva provato quale fosse la Chiesa di Cristo. In conclusione egli descriveva la gioia della Roma cristiana per il ritorno del suo pastore.
Quando Cipriano sosteneva che Dio attraverso la persecuzione "cercò di far vergognare gli  eretici e di ridurli al silenzio, così da far vedere dove era la vera Chiesa, chi fosse il suo vescovo scelto dalla grazia di Dio, chi fossero i suoi  presbiteri in comunione col vescovo nella gloria del sacerdozio, chi fosse il vero popolo di Cristo, unito nel Suo gregge da un amore particolare, chi fossero coloro che erano oppressi dai nemici e allo stesso tempo coloro che erano protetti da Satana come propri", evidentemente si riferiva ai seguaci di  Novaziano. Infatti, durante il pontificato di Lucio, lo scisma di Novaziano, autoproclamatosi Papa in opposizione a Cornelio, continuò.
Riguardo al riaccoglimento dei "lapsi" (ricaduti nel paganesimo) Lucio si conformò ai principi di Cornelio e Cipriano. Secondo la testimonianza di quest'ultimo, contenuta in una lettera a Papa Stefano I, Lucio, come Cornelio espresse il suo pensiero per iscritto: Illi enim pleni spiritu Domini et in glorioso martyrio constituti dandam esse lapsis pacem censuerunt et poenitentia acta fructum communicationis et pacis negandum non esse litteris suis signaverunt. (Anche a loro, colmi dello spirito di Dio e confermati nel glorioso martirio, dopo la giusta penitenza, non dovrebbe essere negato il godimento della comunione e della riconciliazione.)
Lucio morì all'inizio di marzo del 254. Nel Depositio episcoporum, la "Cronografia del 354" indica la sua data di morte nel 5 marzo, mentre il  Martyrologium Hieronymianum nel 4 marzo. Forse Lucio morì il 4 marzo e fu sepolto il 5. Secondo il Liber Pontificalis questo Papa fu decapitato al tempo di Valeriano, ma questa testimonianza non può essere accettata perché le persecuzioni di Valeriano iniziarono più tardi del marzo 254. È vero che Cipriano nella lettera a Stefano sopra riportata gli tributa, così come a Cornelio, il titolo onorario di martire: servandus est enim antecessorum nostrorum beatorum martyrum Cornelii et Lucii honor gloriosus (la gloriosa memoria dei nostri predecessori i beati martiri Cornelio e Lucio dovrà essere preservata), ma probabilmente si riferiva al breve esilio di Lucio. Cornelio, che morì in esilio, dopo la sua morte, fu onorato come martire dai romani, ma non Lucio. Nel calendario romano delle feste, "Cronografia del 354" viene ricordato nel Depositio episcoporum, ma non nel Depositio martyrum. Ciononostante, come si evince dal  Martyrologium Hieronymianum, la sua memoria era particolarmente onorata. Eusebio di Cesarea, inoltre, riportava (Historia Ecclesiastica, VII, 10) che Valeriano nella prima parte del suo regno fu favorevole ai Cristiani, infatti, il primo editto di persecuzione dell'imperatore apparve solamente nel 257.
Lucio fu sepolto in un compartimento della cripta papale nelle catacombe di San Callisto. Durante gli scavi della cripta,  Giovanni Battista De Rossi rinvenne un grande frammento dell'epigrafe originale che riportava solamente il nome del papa in greco: LOUKIS. La lastra era rotta immediatamente dopo questa parola, e probabilmente non c'era scritto altro oltre al titolo EPISKOPOS (vescovo).
Le reliquie del santo furono traslate da Papa Paolo I (757-767) nella  Chiesa di San Silvestro in Capite, o da Papa Pasquale I (817-824) nella  Basilica di Santa Prassede. La sua testa attualmente è conservata in un  reliquiario nella Cattedrale cattolica di Sant'Ansgar a Copenaghen, in Danimarca. La reliquia venne portata a Roskilde attorno all'anno  1100, dopo che Lucio era stato dichiarato patrono della regione danese della  Zelanda (Paesi Bassi). È tra le poche reliquie ad essere sopravissute alla Riforma in Danimarca.
L'autore del Liber Pontificalis ha attribuito arbitrariamente a San Lucio un decreto secondo il quale due presbiteri e tre diaconi dovevano sempre accompagnare il vescovo per essere testimoni della sua vita virtuosa: Hic praecepit, ut duo presbyteri et tres diaconi in omni loco episcopum non desererent propter testimonium ecclesiasticum. È probabile che tale misura si sarebbe resa necessaria, a certe condizioni, in un periodo più tardo; ma ai tempi di Lucio ciò era inconcepibile. La storia contenuta nel Liber Pontificalis secondo cui Lucio, in punto di morte, diede all'arcidiacono Stefano il potere sulla Chiesa, è inventata.  
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Lucio I, pregate per noi.

*Beato Marco Çuni - Seminarista e Martire (4 marzo)
Scheda del Gruppo a cui appartiene:
Beati Martiri Albanesi (Vincenzo Prennushi e 37 compagni) - 5 novembre

Bushati, Albania, 30 settembre 1919 – Scutari, Albania, 4 marzo 1946
Mark Çuni, allievo dei Pontificio Seminario di Scutari, contrastò la propaganda del regime comunista producendo, insieme all’amico e collega Gjergj Bici, una serie di volantini firmati «Unione Albanese». La polizia segreta scoprì il suo progetto e colse l’occasione per incastrare i Gesuiti che dirigevano il Seminario.
A seguito di un processo-farsa, Mark venne condannato a morte per fucilazione insieme ad altri cinque uomini: i padri gesuiti Giovanni Fausti e Daniel Dajani, il francescano Gjon Shllaku, i laici Gjelosh Lulashi e Qerim Sadiku. La sentenza fu eseguita il 4 marzo 1946 presso il cimitero cattolico di Scutari.
Insieme ai suoi compagni di martirio, Mark Çuni è stato incluso nell’elenco dei 38 martiri albanesi beatificati il 5 novembre 2016 a Scutari.
Famiglia e formazione
Mark Çuni nacque nel villaggio di Bushati, in Albania, il 30 settembre 1919. Proveniva da una famiglia che si era resa nota nella zona per il suo coraggio e il suo ardimento.
Frequentò le elementari nel suo villaggio, ma per le scuole secondarie passò a Scutari. A 18 anni divenne allievo del Collegio Saveriano di Scutari, annesso al Pontificio Seminario diocesano, entrambi retti dai Gesuiti.
I rischi del comunismo
Quando Mark era ormai molto avanti negli studi teologici, l’Albania fu occupata prima dall’esercito italiano fascista, poi da quello tedesco nazista. Alla fine del 1944, i tedeschi si ritirarono e i partigiani comunisti, comandati da Enver Hoxha, conquistarono il potere.
Gli allievi del Seminario, che avevano iniziato a temere il pericolo imminente, avevano cominciato a produrre un mensile, «Aurora consurgens», stampato in proprio con il ciclostile con cui, all’epoca, venivano riprodotti i libri di testo.
La propaganda comunista, intanto, aumentava sempre più: non passava giorno che, sulle porte delle case, comparissero volantini dai toni minacciosi, spesso distribuiti dai giovani. I seminaristi avvertirono il peggioramento della situazione e trovarono un modo insolito per reagire.
Il primo volantino
Nel mese di aprile 1945, durante una ricreazione, qualcuno lesse una poesia satirica, a firma del francescano padre Gjon Shllaku, diretta contro Tuk Jakovë, all’epoca segretario del partito comunista per la regione di Scutari. I giovani scoppiarono in una fragorosa risata: il componimento descriveva alla perfezione il clima politico in cui vivevano.
A Mark venne un’idea, che rivelò subito, sussurrandogliela all’orecchio, all’amico e collega Gjergj Bici: riprodurre la poesia su dei volantini. Gjergj aveva sottratto alle perquisizioni il ciclostile con cui veniva stampato «Aurora consurgens» e l’aveva nascosto nel laboratorio di fisica.
Con una scusa, domandò a un altro studente, Ndoc Vata, le chiavi dell’aula: insieme a Mark, portò l’apparecchio in soffitta e lì iniziarono a riprodurre la poesia. Con l’aiuto di alcuni amici fidati, iniziarono a farla circolare: di mano in mano, procurò un certo sollievo in quei tempi critici.
L’Unione Albanese
Visto il successo, Mark e Gjergj decisero di produrre un altro volantino, poi un altro ancora. Come pseudonimo, dato che rischiavano di essere scoperti ed espulsi per aver violato le regole del Seminario, si firmarono «Bashkimi Shqiptar», ovvero «Unione Albanese».
Grazie alle vacanze estive, poi, i seminaristi che vivevano le prime esperienze pastorali, ne approfittarono per estendere ancora di più la distribuzione dei volantini ai villaggi e ai paesi di montagna.
Le false elezioni
L’estate 1945, tuttavia, segnò anche l’inizio di voci relative a una probabile tornata elettorale. Nell’autunno successivo, Mark e Gjergj andarono al liceo Illyricum dei Frati Minori, per parlare con Zef Plluni, un lontano parente del secondo.
Il loro scopo era procurarsi altri ciclostile e macchine da scrivere, perché le elezioni erano state fissate per il mese di dicembre e, nei fatti, non c’erano candidati se non per il partito comunista.
Zef era di parere contrario: pensava che, essendo giovani, nessuno li avrebbe ascoltati. Gli altri due replicarono che si dovevano affrontare i comunisti usando le loro stesse armi di propaganda, anche con l’impiego dei giovani. L’allievo francescano provò ancora a dissuaderli, ma senza verso.
Nel periodo pre-elettorale, l’Unione Albanese uscì con altri quattro o cinque volantini, distribuiti sempre nella segretezza più estrema, tramite parenti, conoscenti o altri colleghi. L’unico professore a sapere dell’organizzazione era il professore laico Gjelosh Lulashi.
Tuttavia, il 27 novembre, pochissimi giorni prima delle elezioni, uno degli studenti del Seminario, Fran Gaçi, venne arrestato, poi rilasciato: morì a casa propria, di lì a poco, a causa delle torture subite. Il 2 dicembre si tennero le prime elezioni, nient’affatto libere: c’era una sola lista e chi non andava a votare era minacciato.
L’arresto
Cinque giorni dopo, il 7 dicembre, Mark fu arrestato, seguito da Gjergj Bici, Ndoc Vata e altri. Tutti subirono pesanti torture, volte a far rivelare loro i particolari del complotto cui erano accusati di far parte, insieme ai Gesuiti e ai Frati Minori.
La sera del 31 fu la volta del rettore, padre Daniel Dajani, e del viceprovinciale dei Gesuiti, padre Giovanni Fausti: erano appena tornati dal villaggio di Fran Gaçi, dove avevano celebrato una Messa in suo suffragio.
Il processo
Gli accusati erano portati a deporre in condizioni pietose. L’accusa principale che veniva loro rivolta era quella di essere delle spie del Vaticano e, di conseguenza, di aver tradito la propria patria.
Mark, in particolare, era stato torturato a tal punto che due guardie dovevano sorreggerlo. Il suo spirito e la sua ironia, però, erano decisamente intatti, a giudicare dalle parole che rivolse ai giudici: «Noi seminaristi non siamo dispiaciuti e non chiediamo pietà per noi stessi perché abbiamo impiegato i mezzi di propaganda che la costituzione garantisce e che voi medesimi promuovete.
Nondimeno, siamo dispiaciuti e non possiamo essere assolti dalla colpa di aver infranto le regole dell’obbedienza e di aver così implicato i nostri superiori che voi state falsamente presentando come capi della nostra organizzazione, l’Unione Albanese».
Il martirio
Il 22 febbraio 1946 vennero lette le sentenze. Otto furono i condannati a morte per fucilazione: padre Gjon Shllaku, padre Giovanni Fausti, padre Daniel Dajani, i seminaristi Mark Çuni e Gjergj Bici, i laici Gjelosh Lulashi, Fran Mirakaj e Qerim Sadiku. Gli altri furono invece destinati al carcere, per un periodo che poteva andare dai cinque anni all’intera vita, di fatto, se avessero anche minimamente trasgredito.
Per Gjergj Bici la sentenza venne poi cambiata in anni di lavori forzati, mentre Fran Mirakaj risulta che sia morto nel settembre 1946.
All’alba del 4 marzo, i sei rimasti furono trasportati al cimitero cattolico di Scutari, luogo della loro esecuzione. Alle 6 in punto venne dato l’ordine di fare fuoco agli otto soldati del plotone, armati di mitragliatrici.
Mark pronunciò quindi le sue ultime parole: «Perdono tutti coloro che mi hanno giudicato, condannato e coloro che mi stanno assassinando. Dite a mia madre che deve regalare i quindici napoleoni d’oro che devo a Ludovik Rasha». Il grido comune dei condannati fu: «Viva Cristo Re! Viva l’Albania!».
La beatificazione
Nell’elenco di 38 martiri uccisi sotto il regime comunista in Albania, capeggiati dal vescovo Vincenç Prennushi, figurano anche Mark Çuni e i cinque tra sacerdoti e laici uccisi con lui.
Sono stati tutti beatificati il 5 novembre 2016 nella piazza davanti alla cattedrale di Santo Stefano a Scutari.
(Autore: Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Marco Cuni, pregate per noi.

*Serva di Dio Luisa Piccarreta - Terziaria Domenicana (4 Marzo)
Corato (Bari), 23 aprile 1865 - 4 marzo 1947

Ecco un’altra grande e pur nascosta figura di vittima di espiazione, consumata sull’altare quotidiano del proprio letto di dolore, portando sul proprio corpo una sofferenza, che le precluse le gioie della cosiddetta felicità terrena, ma per rivelarle le gioie più gratificanti, della vita dello spirito unito con Dio.
Luisa Piccarreta nacque a Corato (Bari) il 23 aprile 1865, quarta delle cinque figlie di Vito Nicola Piccarreta e Rosa Tarantini. Trascorse la sua fanciullezza e adolescenza in una masseria agricola, di cui il padre era fattore, situata al centro delle Murge, in località Torre Disperata.
Ricevette la Prima Comunione e Cresima a nove anni e da quel momento imparò a rimanere in preghiera per ore intere; a undici anni si iscrisse all’Associazione delle Figlie di Maria.
Verso i tredici anni ebbe la visione di Gesù, che portando la Croce sulla via del Calvario e alzando gli occhi verso di lei, pronunziò: "Anima, aiutami". Da allora si accese in lei un desiderio insaziabile di patire con Gesù le sue sofferenze, per la salvezza delle anime; a 16 anni fece il voto di offrirsi come vittima di espiazione.
Iniziarono per lei quelle sofferenze fisiche, dovute alle stimmate invisibili e agli attacchi del demonio, che aggiunte a quelle spirituali e morali, la portarono a vivere con eroismo le virtù cristiane.
Luisa per ricevere conforto ed aiuto per superare queste prove così sofferte, si rivolgeva con la preghiera alla Madonna. Subì fenomeni particolari, di cui il più eclatante fu quello che era soggetta ad una rigidità cadaverica, anche se dava segni di vita e non esistevano cure che potessero risolvere questa indicibile pena.
La famiglia si rivolse alla scienza medica, ritenendo questi fenomeni una malattia, ma come detto senza successo e allora fu interpellato un sacerdote, provvisoriamente ritornato nella sua famiglia, l’agostiniano padre Cosma Loiodice, il quale recatosi dall’inferma, tracciò un segno di croce su quel corpo immobile, che fra la meraviglia dei presenti, fece riacquistare all’inferma le sue normali funzioni. Partito il padre agostiniano, ogni giorno veniva chiamato un sacerdote qualsiasi, che con un segno di croce la riportava alla normalità. Non fu compresa da tutti, anzi gli stessi sacerdoti la consideravano una ragazza esaltata, una nevrotica che voleva attirare l’attenzione degli altri su di sé.
Una volta la lasciarono in quello stato cadaverico per più di venti giorni; tutto questo era cominciato da quando si era offerta come vittima d’espiazione e ogni mattina al risveglio si trovava rigida, immobile, rannicchiata sul suo letto e nessuno riusciva a stenderla o farle fare qualche movimento; solo il segno della croce del sacerdote, riusciva a sbloccarla.
Non aveva un direttore spirituale, perché Gesù le parlava interiormente, correggendola e conducendola verso le vette più alte della perfezione cristiana. Quest’avvenimento non poteva passare inosservato, per cui una volta informato l’arcivescovo di Trani, mons. Giuseppe Bianche Dottula (1848-1892), avocò a sé il caso, delegando un confessore speciale per Luisa Piccarreta, nella persona di don Michele De Benedictis, il quale con la sua prudenza e saggezza, impose alla ragazza di Corato, dei limiti per cui non poteva fare niente senza il suo consenso; le ordinò di mangiare almeno una volta al giorno, anche se subito rimetteva il cibo ingerito.
Luisa doveva vivere solo della Divina Volontà. Padre Michele dal 1° gennaio 1889 le diede il permesso di rimanere a letto, dove rimase seduta per 59 anni, fino alla morte, ininterrottamente.
Il nuovo arcivescovo di Trani, mons. De Stefano (1898-1906) delegò come nuovo confessore di Luisa, don Gennaro De Gennaro, che lo fu per 24 anni. Questo sacerdote, intuendo il lavorio interno di Dio su quest’anima, le ordinò categoricamente di mettere per iscritto, tutto ciò che la Grazia Divina operava in lei.
Nonostante che avesse frequentato solo la prima elementare, Luisa Piccarreta cominciò il 28 febbraio 1899 a scrivere il suo diario, che consiste in un manoscritto raccolto in 36 volumi. L’ultimo capitolo fu scritto il 28 dicembre 1938, quando le fu ordinato di non scrivere più.
Ebbe dopo i primi due, altri due confessori sempre delegati dalla Curia arcivescovile, l’ultimo don Benedetto Calvi le fu vicino fino alla morte. All’inizio del Novecento incontrò sant'Annibale Maria Di Francia (1851-1927) un fondatore di Congregazioni di Messina, il quale fu suo confessore straordinario e censore dei suoi scritti, che venivano regolarmente esaminati ed approvati dalle autorità ecclesiastiche.
Sant'Annibale curò la pubblicazione dei suoi vari scritti, tra i quali ebbe successo il libro "L’orologio della passione", stampato in cinque edizioni, le fece scrivere nel 1926, pure un quaderno di "Memorie d’infanzia".
Il 7 ottobre 1928, si completò la costruzione a Corato della Casa delle suore della sua "Congregazione del Divino Zelo" e per adempiere al desiderio del fondatore (nel frattempo morto nel 1927 a Messina), Luisa Piccarreta fu trasferita in quel convento.
Dieci anni dopo tre dei suoi scritti furono messi all’Indice; quando seppe della condanna del sant’Uffizio, Luisa si sottomise subito al giudizio dell’autorità della Chiesa, consegnando all’incaricato romano tutti i diari manoscritti (ed oggi ancora conservati negli archivi vaticani) e riprovando lei stessa ciò che le veniva condannato negli scritti pubblicati.
Inoltre il 7 ottobre 1938, esattamente dopo dieci anni dalla sua entrata in quel convento, per disposizione dei superiori, dovette lasciarlo, sistemandosi in un’abitazione, dove trascorse gli ultimi nove anni della sua vita, assistita amorevolmente dalla sorella Angelina e da alcune pie donne.
Non possedeva quasi nulla e il lavoro al tombolo che faceva da tutta la vita, nei limiti delle sue possibilità fisiche, era appena sufficiente al sostentamento della sorella; lei invece i pochi grammi di cibo che mangiava, li rimetteva subito dopo.
Era un miracolo vivente, non aveva l’aspetto di una moribonda ma nemmeno di una persona sana, eppure non stava mai inoperosa. La sua giornata iniziava all’alba, quando arrivava il sacerdote a benedirla e celebrare la Messa (era un privilegio accordato da Papa Leone XIII e confermato dal suo successore s. Pio X nel 1907).
Poi seguivano due ore di ringraziamento e preghiera e alle otto prendeva a ricamare; a mezzogiorno c’era il frugale pasto, come detto il più delle volte rimesso; nel pomeriggio vi erano
alcune ore di lavoro, poi veniva recitato il Rosario e alle otto di sera iniziava a scrivere il suo diario e circa a mezzanotte si addormentava, per ritrovarsi al mattino di nuovo rigida, rannicchiata con la testa piegata a destra; sempre in preda a questo stranissimo fenomeno inspiegabile.
Dopo quindici giorni di malattia (l’unica clinicamente accertata) Luisa Piccarreta morì a Corato il 4 marzo 1947, nonostante tutto a 81 anni. Morì all’alba prima del risveglio, per cui rimase seduta sul letto nella posizione avuta per tutta la vita e pertanto non fu possibile stenderla e venne portata al cimitero in quella posizione. I funerali videro la partecipazione di una immensa folla, dopo pochi anni i suoi resti furono traslati dal locale cimitero, nella parrocchia di Santa Maria Greca.
Con l’approvazione della Santa Sede del 28 marzo 1994, l’arcivescovo di Trani - Barletta - Bisceglie, mons. Cassati, aprì il processo diocesano per la sua beatificazione.
Il 29 ottobre 2005, con una solenne cerimonia nella Chiesa Matrice di Corato, l'Arcivescovo di Trani, Mons. Giovanni Battista Pichierri, ha concluso la fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione della Serva di Dio, trasmettendo gli atti al competente dicastero della Santa Sede per il prosieguo dell'iter canonico.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria – Serva di Dio Luisa Piccarreta, pregate per noi.

*Beata Maria Luisa (Elisabeth de Lamoignon) – Fondatrice (4 marzo)

Parigi, Francia, 3 ottobre 1763 - Vannes, Francia, 4 marzo 1825
Il lusso e i fasti non la interessavano: fin da piccola Marie-Louise de Lamoignon era più propensa alla preghiera e alla vita spirituale che alle feste di corte.
Secondo l’uso dell’epoca, sposò giovanissima il cugino, conte Molé di Champlâtreux e insieme con lui fece la scelta di una vita semplice e povera, nonostante le ricchezze non mancassero, in unione al popolo di Parigi, a un passo dalla Rivoluzione, che intorno al mondo dorato della nobiltà sprofondava, invece, sempre più nella miseria.
Il cardinale Amato ci ricorda il particolare carisma della nuova Beata: “La Beata Mère Saint-Louis fece fruttificare le sue doti di natura e di grazia, parlando la lingua della carità
evangelica, che invita concretamente a dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, a servire e aiutare i poveri, a istruire gli ignoranti, a educare i piccoli nella via della virtù”.
La vita non risparmierà a Marie-Louise uno dei dolori più grandi: il marito sarà ghigliottinato ingiustamente durante il Terrore, il periodo più buio della Rivoluzione.
Rimasta sola, il suo cuore guariva lentamente, consolato dal Signore che aveva sacrificato il Suo Figlio prediletto, e perdonò gli assassini del marito.
Fu così che si avvicinò alla Croce, della quale si sentiva figlia, soffrendo per la sofferenza degli uomini, ma anche per la sofferenza di Dio e impegnandosi, sull’esempio di Cristo, ad amare “i suoi che erano nel mondo fino alla fine” (Gv 13,1).
Questo chiedeva, alle sue sorelle delle Figlie della Carità, la congregazione da lei fondata: di formarsi sul modello di Maria ai piedi della Croce: “Le sue Figlie sono chiamate a imitare l’esempio e a condividere l’anelito alla santità e all’apostolato della carità della madre fondatrice.
Mère Saint-Louis invita, poi, tutti noi a vivere la vita di grazia e a collaborare alla costruzione
della civiltà dell’amore con la nostra personale santificazione”.
Stringendo al petto il crocifisso dal quale non si separava mai, Madre Saint-Louis morì a Vannes nel 1825, lampada luminosa di carità e bontà, capace di indicare a tutti il cammino da seguire, come solo i Santi sanno fare: contrastando le opere della carne con le opere dello Spirito.
E di Santi, la Chiesa oggi ha più che mai bisogno, come ha ricordato, infine, il cardinale Amato: “Oggi la Chiesa e la società hanno bisogno di Santi, che disintossicano l’umanità, avvilita dal male dell’idolatria, dell’inimicizia, della discordia, della gelosia”.

(Fonte: www.new.va)
Giaculatoria - Beata Maria Luisa, pregate per noi.

*Beati Miecislao Bohatkewicz, Ladislao Mackowiak e Stanislao Pyrtek - Sacerdoti e Martiri (4 marzo)
Scheda del Gruppo a cui appartengono:
“Beati 108 Martiri Polacchi”  
+ Glebokie, Polonia, 4 marzo 1942
Ricorre il 4 marzo l’anniversario della fucilazione ad opera dei nazisti di tre sacerdoti diocesani: Mieczyslaw Bohatkewicz, nato a Kriukai in Lituania il 1° gennaio 1904, Wladyslaw Mackowiak, nato a Sytki in Polonia il 14 novembre 1910, e Stanislaw Pyrtek, nato a Bystra Podhalańska in Polonia il 21 marzo 1913.  
Papa Giovanni Paolo II li ha beatificati a Varsavia (Polonia) il 13 giugno 1999 con altri 105 martiri polacchi.
Martirologio Romano: Nella cittadina di Berezwecz presso la città di Głębokie in Polonia, Beati Miecislao Bohatkiewicz, Ladislao Maćkowiak e Stanislao Pyrtek, sacerdoti e martiri, che, in tempo di guerra, per la loro fede in Cristo furono gettati in carcere e fucilati.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beati Miecislao Bohatkewicz,Ladislao Mackowiak e Stanislao Pyrtek, pregate per noi.

*San Paolo I (o Paolino) di Brescia - Vescovo (4 marzo)

V sec. (?)

San Paolo I o Paolino è il decimo vescovo della diocesi di Brescia. Nella serie dei vescovi di Sant’Anatalone è inserito dopo San Gaudenzio e prima di San Teofilo.
Si ritiene abbia governato la diocesi nei primi anni del V secolo.
Qualche storico afferma che fu il fratello del suo predecessore San Gaudenzio, del quale si dice "fratello non meno nello spirito che nella carne". Alcuni storici sbagliando completamente,
lo identificarono come un chierico africano, notaio e biografo di Sant’Ambrogio.
Di lui sappiamo nulla.
Alterne vicende riguardano i suoi resti.
Si presume che il suo corpo sia sepolto inizialmente in una delle antiche basiliche della città (San Floriano, o Sant’Andrea o San Salvatore).
Grazie ad un ritrovamento del 1497, sappiamo che i suoi resti sono stati traslati nella basilica di Sant’Eusebio al Goletto, fondata da San Paolo II.
Nell’anno successivo, il 3 marzo 1498, le sue reliquie vennero traslate nuovamente e poste in san Pietro in Oliveto. Infine nel 1798 furono trasferite nella chiesa di Sant’Agata.
Nel martirologio romano non c’è il suo nome.
La sua memoria era fissata fin dal secolo XI, nei più antichi cataloghi della città e nelle più antiche liste monastiche.
Di sicuro la sua festa ricorreva la quarta domenica dopo Pasqua insieme con i vescovi, suoi successori Adeodato, Cipriano, Paolo II e Silvino.
Nel martirologio diocesano una volta era ricordato il 3 marzo, giorno della traslazione delle sue reliquie; attualmente lo si ricorda il 4 marzo giorno della sua festa liturgica.

(Autore: Mauro Bonato – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Paolo I, pregate per noi.

*San Pietro I (Pappacarbone) - Abate di Cava (4 marzo)
Pietro fu il secondo successore - dopo San Leone - di suo zio Alferio, primo abate della Santissima Trinità di Cava dei Tirreni, fondata nel 1028. Pietro era nato giusto dieci anni dopo a Salerno e come Alferio apparteneva alla nobile famiglia dei Pappacarbone. Entrato tra i benedettini di Cava, fu sotto la guida spirituale di Leone.  
In seguito si ritirò a vita eremitica sul monte Sant'Elia e poi partì per Cluny, dove rimase cinque anni alla scuola di sant'Ugo.
Al ritorno dapprima ebbe difficoltà a trasmettere la rigorosa riforma cluniacense ai monaci cavesi. Allora si ritirò nel monastero di Sant'Arcangelo del Cilento. Nominato vescovo di Policastro (di cui è patrono), rinunziò dopo due anni. Appianati i contrasti, nel 1079 successe a Leone e sotto di lui l'abbazia fiorì sia economicamente che come vocazioni (diede l'abito a oltre tremila monaci). Morì ottantacincquenne nel 1123. (Avvenire)
Martirologio Romano: Nel monastero di Cava de’ Tirreni in Campania, San Pietro, che, dopo aver seguito fin da giovane la vita monastica, fu eletto vescovo di Policastro, ma, stanco del clamore della vita mondana, ritornò in monastero, dove, divenuto abate, rinnovò mirabilmente la disciplina.  
Secondo successore di Sant' Alferio alla guida della quasi millenaria abbazia della Trinità di Cava, fondata nel 1020. Egli era nipote del santo fondatore, ambedue della nobile famiglia Pappacarbone e congiunto di sangue con i principi longobardi di Salerno, dove nacque nel 1038.
Entrato giovane fra i benedettini di Cava, distinguendosi per l’ardore religioso e desiderio di mortificazione, fece grandi progressi spirituali sotto la guida dell’abate San Leone I (1050-79)
primo successore di suo   zio Sant’ Alferio Pappacarbone.  
Amante della solitudine si ritirò a fare l’eremita sul vicino monte S. Elia, poi partì per Cluny per perfezionarsi alla scuola di s. Ugo abate, dove stette per cinque anni. Ritornato a Cava fu nominato dal principe di Salerno Gisulfo II, vescovo di Policastro, ma dopo due anni di intensa opera pastorale, rinunziò alla carica riprendendo la sua vita ascetica a Cava, dove s. Leone I molto avanti negli anni, lo associò alla guida dell’abbazia.
Pietro volle applicare rigidamente le norme di Cluny che aveva appreso in Francia, provocando una vivace reazione da parte dei monaci, che riuscirono a convincere delle loro ragioni anche il vecchio abate Leone.
Pietro allora si allontanò dalla badia, ritirandosi nel monastero di S. Arcangelo del Cilento, dove restaurò la vita monastica secondo il rigore cluniacense.
Dopo qualche tempo ritornò al governo di Cava, richiamato dai monaci che si erano ricreduti. Il 12 luglio 1079 morì l’abate San Leone I e Pietro subentrò in pieno nella carica di abate di Cava e delle sue numerose dipendenze, governando con fermezza e sapienza.
I principi di Salerno, furono molto generosi con lui concedendo feudi e beni, affidandogli più di 350 monasteri latini e greci nel Cilento, in Lucania, in Puglia e in Calabria. Sotto il suo governo, l’abbazia della Trinità di Cava divenne il centro di una potente congregazione monastica con svariate centinaia di chiese e monasteri dipendenti, ormai sparsi in tutta l’Italia Meridionale.  
Furono più di 3.000 i monaci cui Pietro diede l’abito; l’abbazia come tutte le dipendenze, godevano di privilegi ed esenzioni concessi con l’indipendenza assoluta dai vescovi, mentre i principi salernitani ed i signori Normanni, l’avevano dotata di poteri feudali; per controllare meglio il buon andamento delle dipendenze, introdusse la visita periodica dei monasteri, che poi i suoi successori tramutarono in Capitoli.
Fu grande nell’esercizio delle virtù monastiche specialmente nell’orazione e la penitenza, praticò con insistenza la  dolcezza e l’umiltà, soprattutto con i monaci e nella correzione dei sudditi, di cui ricevé sempre stima ed affetto.
Si racconta di lui una ricca sequenza di avvenimenti miracolosi, che diffusero la sua fama in tutta l’Italia Meridionale. Nei primi giorni di settembre del 1092, il papa Urbano II, che l’aveva conosciuto a Cluny, arrivò a Cava dei Tirreni con un seguito di cardinali, vescovi, principi e baroni, compreso il duca Ruggero, provenienti da ogni regione del Meridione; il papa consacrò la nuova chiesa abbaziale, ampliata e trasformata in basilica a più navate, concedendo all’abate le insegne vescovili. Pietro I Pappacarbone, morì pieno di meriti ad 85 anni il 4 marzo 1123, venendo sepolto nella stessa cripta dei suoi predecessori. Se Sant' Alferio è stato il fondatore dell’abbazia di Cava, San Pietro I è riconosciuto come il vero costruttore, cui si devono l'organizzazione della vita monastica e il meraviglioso impulso dato alla Congregazione Cavense. Policastro l’ha eletto suo patrono, celebrando con solennità la festa al 4 marzo.  
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Pietro I, pregate per noi.

*Beata Placida Viel - Vergine (4 marzo)
Quettehou, Francia, 26 settembre 1815 - Saint-Sauveur-le-Vicomte, Francia, 4 marzo 1877
Martirologio Romano:
 Nel cenobio di Saint-Sauveur-le-Vicomte nella Normandia in Francia, beata Placida (Eulalia) Viel,   Vergine, che si distinse nel reggere con impegno e umiltà la Congregazione delle Scuole Cristiane della Misericordia.
Eulalia Vittoria Viel nacque il 26 settembre 1815 a Quettehou, un villaggio della Normandia. La sua numerosa  famiglia, che contava undici figli, viveva discretamente e così la bambina poté studiare fino ai dodici anni, per frequentare poi una scuola di cucito.
Assai timida, visse serenamente la sua adolescenza. Si distingueva per una grande religiosità, era
sempre presente ai corsi di catechismo della sua parrocchia. Al momento di decidere del suo futuro, fu una cugina del padre, detta erroneamente zia, ad avere un ruolo decisivo.
Si chiamava Maria ed era una delle prime compagne di Santa Maria Maddalena Postel che nel 1806 aveva dato vita alle Suore delle Scuole Cristiane della Misericordia, per l´istruzione delle giovani del popolo sul modello educativo di San Giovanni Battista de la Salle.
Suor Maria combinò l´incontro tra Vittoria e la fondatrice. La giovane, che aveva appena diciotto anni, fu conquistata dal carisma della Santa e dall’ambiente povero, ma felice in cui le religiose vivevano.
Superato il difficile e penoso distacco familiare, soprattutto da parte del padre e del fratello maggiore, si unì alla comunità.
La Casa Madre della Congregazione, acquistata pochi anni prima, era quanto restava dell’antica abbazia benedettina di Saint Sauver, abbandonata dai tempi della Rivoluzione Francese. Era tutto da ricostruire ma, con grande entusiasmo e con la guida straordinaria della fondatrice, quelle antiche mura tornarono ad ospitare una nuova opera del Signore. Vittoria vestì l´abito col nome di Placida. Fino al momento della professione fu di aiuto in cucina, poi le furono assegnati compiti più importanti. Frequentò corsi per perfezionare la sua istruzione e, ottenuta l´abilitazione ad insegnare, ricoprì il ruolo di maestra delle novizie e consigliera.
Il ruolo che andava assumendo causò l´invidia proprio della consorella sua parente, ma Santa Maria Maddalena Postel sentiva che la giovane Placida avrebbe fatto un gran bene alla congregazione e ripose in lei una grandissima fiducia.  
Suor Placida fu inviata a Parigi col compito di reperire i fondi per il restauro della chiesa e a tale scopo non indugiò a bussare alla porta del Palazzo Reale e a quelle di vari ministri. Per quattro anni affrontò, con umiltà e per spirito di obbedienza, numerose contrarietà. Nel 1846 tornò a Saint Sauver chiamata dalla fondatrice che, quasi novantenne, era ormai allo stremo delle forze (morì il 16 luglio.
Quando, nel settembre successivo, si dovette eleggere una nuova superiora, gli occhi di tutte si posarono su Suor Placida che aveva solo trentuno anni. La Beata volle però portare a compimento la ricerca dei fondi per il restauro  della chiesa, occupandosi solo degli affari più importanti. Quelli ordinari sarebbero stati assolti dalla parente Suor Maria.
La soluzione "provvisoria" durò dieci anni. Madre Placida, sempre in viaggio, si occupò principalmente del consolidamento della congregazione. Con la sua guida le Suore divennero un migliaio, con oltre un centinaio di case. Non si risparmiò mai, si spostava spesso a piedi, dormendo, se necessario, all’aperto.
Dava istruzioni attraverso la corrispondenza e quando tornava a casa riposava in soffitta, perché la sua stanza era occupata da Suor Maria che non perdeva occasione per infliggerle prove ed umiliazioni.
Terminata la raccolta dei fondi per il restauro della chiesa la parente morì, come aveva pronosticato la Santa fondatrice, e Madre Placida si stabilì definitivamente a Saint Sauver. Nei trentuno anni di guida della Congregazione, Madre Placida rispose alle necessità dei tempi non solo con scuole, ma anche con orfanotrofi, asili e ospedali.
La morte pose fine alla sua operosa giornata terrena il 4 marzo 1877.  Fu beatificata da Papa Pio XII il 6 maggio 1951.   
(Autore: Daniele Bolognini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Placida Viel, pregate per noi.

*Beato Ruperto di Ottobeuren - Abate (4 marzo)
XII-XIII secolo
Nato nella seconda metà del dodicesimo secolo, dopo varie esperienze monastiche venne posto a capo della fatiscente abbazia di Ottobeuren.
Sotto la sua guida il monastero ebbe una nuova fioritura, tanto da meritare l’appellativo di secondo fondatore di Ottobeuren.
Morto in fama di santità, la sua tomba fu subito meta di pellegrinaggi per le guarigioni miracolose a lui attribuite.
Dopo varie traslazioni, le sue reliquie riposano nel monastero di Ottobeuren, in un’apposita cappella a lui dedicata.
L’Ordine Benedettino lo festeggia il 4 marzo.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Ruperto di Ottobeuren, pregate per noi.

*Beato Umberto III di Savoia - Conte (4 marzo)
Avigliana, Torino, 1136 - Chambéry, Savoia, 4 marzo 1188
Diede diritti e doni ai monasteri ed ebbe un ruolo decisivo nell'organizzazione dell'abbazia di Altacomba.
Si dice che avrebbe preferito essere monaco invece che sovrano.
Ebbe quattro mogli: Faide di Tolosa, morta nel 1154, Gertrude delle Fiandre (matrimonio annullato), Clemenza di Zharinghen, morta nel 1162 e Beatrice di Macon.
Alla morte della terza moglie si ritirò ad Hautecombe, ma poi cambiò idea e, dalla quarta moglie ebbe finalmente l'erede maschio.  
Si schierò col partito guelfo del Papa Alessandro III contro i Ghibellini dell'imperatore Federico Barbarossa.
La conseguenza fu l'invasione dei suoi stati per ben due volte: nel 1174 Susa fu messa a ferro e fuoco e nel 1187 Enrico VI lo bandì dall'impero  e gli tolse la maggior parte dei domini, gli rimasero solo le valli di Susa e d'Aosta.
Morì a Chambéry nel 1189. Fu il primo principe sepolto ad Hautecombe.
Emblema: Corona, Scettro
Martirologio Romano: A Chambery in Savoia, Beato Umberto, terzo conte di Savoia, che costretto a lasciare il chiostro per occuparsi degli affari pubblici, con maggiore dedizione praticò la vita monastica, a cui in seguito ritornò.  
Umberto III, conte di Savoia, primo Beato della celebre dinastia omonima, è un personaggio di assoluto rilievo nel grande quadro della società medievale come della storia sabauda, di cui possiede le fondamentali caratteristiche: mistico, portato per vocazione e tradizione alla vita contemplativa, reso dalle vicende del suo tempo guerriero e politico, sposo esclusivamente per ragioni dinastiche.
Umberto nacque verso il 1136 nel castello di Avigliana, nei pressi di Torino, figlio del conte Amedeo III e di Matilde d’Albon.
Ereditò dal padre come dal nonno Umberto II il sogno unitario di ricostituire il discolto regno di Borgogna, in netto contrasto con la politica accentratrice dei sovrani francesi e con
l’affermazione universalistica di Federico I Barbarossa, e si trovò indotto a svolgere un’accorta politica di assoggettamento delle signorie feudali confinanti o insediate fra i suoi beni.
Non dissimili furono i suoi inizi da quelli paterni: Umberto II, morendo infatti giovane, aveva lasciato erede il primogenito Amedeo III ancora minorenne.
Questi affidò l’educazione di suo figlio a Sant’Amedeo di Losanna, già abate di Hautecombe, e sotto la sua guida  il piccolo Umberto fece grandi progressi negli studi e nella formazione spirituale, disprezzando l’apparente splendore delle cose mondane per darsi alla preghiera, alla meditazione ed alla penitenza.
Per meglio conseguire i suoi alti scopi, si ritirava spesso proprio nell’abbazia di Hautecombe, sulle rive del lago di Bourget in Savoia, fondata dal padre: egli lasciava sempre con rincrescimento questo luogo ogni volta che la famiglia e la nobiltò savoiarda lo richiamavano per occupparsi di questioni politiche.
Amedeo III fu pellegrino in Terra Santa nel 1122 circa per gratitudine verso il Papa Callisto II, e dal 1146 partecipò alla Seconda Crociata, morendo sull’isola di Cipro presso Nicosia il 1° aprile 1148, ove fu sepolto, lasciando quale erede il piccolo Umberto III appena dodicenne.
Seppur ancora in tenera età, nel 1151 Umberto convolòa nozze con Fedica, figlia del conte Alfonso-Giordano di Tolosa, che morirà presto senza figli.
Il genealogista Carrone ha dubitato sulla nascita del conte nel 1136, già affermata dal Guichenon che aveva pubblicato un documento con la data del matrimonio all’anno 1151, quindi in un'età giovanissima di quattordici o quindici anni, ed antepose quindi la nascita verso il 1132.
Bisogna però tener conto che la vita umana allora era assai più breve ed i costumi medievali non disdegnavano impegni matrimoniali fra nascituri o fanciulli.
Più tardi Umberto sposò una cugina, Gertrude figlia del conte Teodorico di Fiandra e di Clemenza di Borgogna, sua parente per essere sorella di Papa Callisto II e di Gisella madre di Amedeo III.
Purtroppo questo secondo matrimonio venne annullato per sterilità.
Nel 1164 sposò Clementina di Zharinghen, che gli diede però solo due figlie: Alice e Sofia.
Rimasto nuovamente vedovo nel 1173, decise di ritirarsi ad Hautecombe, finchè la nobiltà nel 1177 non riuscì a  convincerlo a sposarsi per la quarta volta, sperando in un erede maschio, con Beatrice figlia del conte Gerardo di Macon.
Nacquero così finalmente Tommaso, al quale spetterà di continuare la dinastia, ed un’altra figlia che però morì all’età di sette anni.
Non deve stupire che la Chiesa abbia riconosciuto la santità di un uomo sposatosi ben quattro volte, anche la Chiesa Ortodossa Romena ha dichiarato Santo il voivoda moldavo Stefan cel Mare, che anch’egli ebbe quattro mogli.
Il lungo regno di Umberto III, durato circa quarant’anni, è caratterizzato da particolari contrasti nei riguardi dell’imperatore, dei vari signori e vescovi-conti.
Il principale motivo di contrasto consistette nella protezione del Barbarossa verso il vescovo di Torino, che sognava di dominare indisturbato il capoluogo subalpino, e ciò portò ad una progressiva riduzione dei possessi e dell’autorità di Umberto III sul versante italiano, ove non gli rimasero che la Val di Susa e la Valle d’Aosta.
Nel 1187 venne infatti bandito dall’impero da Enrico VI, in quanto appoggiava gli oppositori dell’imperatore.
Non gli rimase che ritirarsi come detto nei suoi domini alpini, dedicandosi in particolare alla pratica delle virtù personali ed alla carità fraterna.
Promosse inoltre la fondazione della Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, presso Buttigliera Alta, poco lontano dall’abitato di Avigliana, affidandola agli Antoniani provenienti da Vienne, in Francia.
La spiritualità di Umberto sbocciò indubbiamente in un ambiente di antiche tradizioni cristiana, favorita in particolar modo dall’esempio di suo padre, pellegrino e crociato in Terra Santa, e del santo vescovo di Losanna, suo precettore.
La vita di questo sovrano trascorse quasi tutta sotto il segno delle contraddizioni: amante della pace, dovette scontrarsi con frequenti ostilità e guerre; penitente, asceta contemplativo, la cura del governo gli impose una vita d’azione, ritrovandosi quasi costretto al matrimonio per lasciare un erede.
Diede tuttavia indubbi segni di grande equilibrio morale, di severità con sé stesso e di indulgenza e carità verso il  prossimo.
Assai munificò si rivelò verso chiese, monastero e soprattutto verso i poveri.
La morte di Umberto III, il 4 marzo 1189 a Chambéry, all’età di cinquantadue anni, fu pianta con sincerità da tutto il popolo.
Fu il primo principe sabaudo ad essere sepolto nell’abbazia di Hautecombe, che da allora divenne una necropoli per la dinastia, tanto che ancora oggi vi riposano Umberto II e Maria José, ultimi sovrani italiani.
Il conte defunto ricevette subito una grande venerazione, supportata anche da non pochi miracoli, finché nel 1838 il re Carlo Alberto di Sardegna non riuscì ad ottenere da Papa Gregorio XVI l’approvazione ufficiale del titolo di “Beato” per il suo avo, nonché per il nipote di questi, Bonifacio, monaco certosino e poi arcivescovo di Canterbury.
I due Beati di Casa Savoia riposano oggi in due pregevoli sarcofagi dietro l’altar maggiore della chiesa abbaziale ad Hautecombe.
In Italia il Beato Umberto III è ricordato ancora oggi in particolare presso Racconigi, ove nel Santuario Reale della Madonna delle Grazie è custodito un quadro del Beato donato dalla regina Elena e fatto restaurare dal re Umberto II.
Inoltre è venerato presso Aosta, ove è raffigurato sulla facciata della cattedrale, ed nel castello di Sarre, sempre in Valle d’Aosta.
Orazione
O Dio, che al Beato Umberto
hai insegnato a preferire il Regno dei cieli ad un regno terreno
e ad abbracciare la mortificazione della croce,
aiuta anche noi, per le sue preghiere e secondo il suo esempio,
a distaccarci dai beni della terra e a cercare quelli eterni.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Umberto III di Savoia, pregate per noi.

*Beato Zoltan Lajos Meszlenyi - Vescovo e martire (4 marzo)

2 gennaio 1892 - 4 marzo 1951
Zoltán Lajos nacque il 2 gennaio 1892 in una famiglia di solida tradizione cattolica. Chiamato al sacerdozio, conseguì presso la Pontificia Università Gregoriana il dottorato in Filosofia e in Teologia e il baccalaureato in Diritto Canonico.
II 28 ottobre 1937 fu ordinato vescovo e nominato ausiliare dell’arcidiocesi di Esztergom in Ungheria. La sua preparazione e il suo zelo pastorale gli permisero una notevole operosità pastorale e culturale.
Subito dopo la seconda Guerra Mondiale, il regime comunista ungherese iniziò a infierire contro la
Chiesa cattolica, applicando nei suoi confronti forme di intolleranza che sfociarono spesso in momenti di persecuzione violenta e sanguinaria. Evento emblematico di questo periodo di terrore e di vera e propria oppressione fu l’arresto del Primate d’Ungheria, l’arcivescovo Jozsef Mindszenty.
Nel 1950, in contrasto con il volere governativo, i canonici della cattedrale di Esztergom-Budapest elessero il Servo di Dio come nuovo Vicario capitolare, riconoscendone la rettitudine e la fermezza. Mons. Meszlényi, pur  consapevole dei rischi, accettò la nomina con prontezza e disponibilità. La repressione del regime non si fece attendere. Dieci giorni dopo, il vescovo venne arrestato e, senza alcun processo, fu internato nello stabilimento penale di Recsk e poi deportato nel campo di concentramento di Kistarcsa, presso Budapest, in isolamento.
Iniziarono così otto mesi di crudele prigionia, fatta di mancanza di cibo e riscaldamento, inasprita dal lavoro forzato e da violenze e torture indicibili, di cui sono maestri gli oppressori di ogni tempo. Dinanzi al dilemma “fedeltà-tradimento”, il Servo di Dio confermò con fortezza la sua fedeltà al Vangelo, vivendo la perversità degli eventi, fiducioso nella misericordia e nella provvidenza divina.  
Sopportò tutto con amore. Morì sfinito di stenti il 4 marzo 1951. La prigionia disumana lo aveva letteralmente ucciso. II movente del suo martirio fu l’ “odium fidei”, l’odio dei carnefici nei confronti di Gesù, del Vangelo, della Chiesa. É il mistero del male che genera odio, lasciando una scia di morte, distruzione e dolore indicibile.
Appena si seppe la notizia della sua morte, coloro che lo avevano conosciuto videro nella vicenda di Mons. Meszlényi il sigillo del martirio. II regime ostacolò in tutti i modi la possibilità di svolgere ricerche e approfondimenti. Ma, come si sa, la menzogna non può vincere a lungo sulla verità. Dopo la caduta del regime la verità si affermò in tutta la sua evidenza per la molteplice testimonianza di documenti e di persone.
Ancora oggi la Chiesa è una Chiesa di martiri, cioè di testimoni forti e coraggiosi del Vangelo. Il martire cristiano ha una ben precisa qualifica. Viene ucciso, non uccide. Viene ucciso per odio nei confronti di Gesù e del suo Vangelo di vita e di verità. Ma la sua risposta non è l’odio ma l’amore, non è la vendetta, ma il perdono, non è il risentimento ma la preghiera per gli stessi persecutori e carnefici. È questa la grande lezione di vita che Mons. Meszlényi lascia a noi oggi.   
(Autore: Mons. Angelo Amato – Fonte: Radio Vaticana)
Giaculatoria - Beato Zoltan Lajos Meszlenyi, pregate per noi.

*Altri Santi del giorno (4 marzo)
*San
Giaculatoria - Santi tutti, pregate per noi.

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